LA FIDUCIA DI SARAMAGO NELLE DONNE

Cento anni fa, esattamente il 16 novembre 1922, nasceva uno degli scrittori più importanti di sempre: José Saramago, Nobel per la Letteratura nel 1998. Quando ritirò il prestigioso premio dichiarò di sentirsi, più che uno scrittore, un apprendista che impara dai propri personaggi. Pilar del Río, l’amatissima moglie andalusa, nonché traduttrice dei suoi testi dal portoghese allo spagnolo, in un’intervista raccontava un bellissimo aneddoto. Saramago si dedicò completamente alla scrittura in età piuttosto avanzata e quando decise di scrivere il libro Una terra chiamata Alentejo (1980), lasciò tutto e partì per incontrare i contadini senza terra e ascoltare le loro storie. Erano uomini e donne sottomessi alla legge del latifondo, che lavoravano dall’alba al tramonto, guadagnavano pochissimo e vivevano in condizioni di estrema povertà. Pilar raccontava che quando Saramago cominciò a scrivere questa storia, per le prime quaranta pagine usò uno stile letterario molto sobrio, ma poi accadde qualcosa di strano. Iniziò a sentire le voci dei contadini e delle contadine con cui aveva parlato e a scrivere con la loro voce. Quando arrivò alla fine della narrazione, riscrisse anche le prime quaranta pagine. Fui molto affascinata da quell’intervista, non solo per l’aneddoto, chiaro riferimento al fatto che tutta l’attività letteraria di Saramago va intesa come lavoro politico, ma per la passione di Pilar nel raccontare l’uomo con cui aveva condiviso 24 anni di vita. Una volta Saramago ammise che grazie a Pilar, la sua vita poté essere una continua ascesa umana. Direi di aver vissuto tutto quello che ho vissuto per arrivare a lei, diceva. E in questa splendida dichiarazione d’amore alla sua donna, non posso non pensare a come tutto il genere femminile, nei suoi romanzi, assurga al ruolo di forza capace di trasformare la realtà e di mutare le sorti dell’umanità. Le azioni delle donne, nei romanzi di Saramago, riescono ad aprire orizzonti e a innescare dei cambiamenti nelle vite degli altri personaggi. Penso a Lidia ne L’anno della morte di Ricardo Reis (1984), all’audace Maria Sara in Storia dell’assedio di Lisbona (1989), a Maddalena, la prostituta che cambia la sua vita per amore ne Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991), a Lilith, la seduttrice, in Caino (2009) e persino alla Morte che finisce per essere personificata in una donna capace di fare l’amore, in Le intermittenze della morte (2005). Ma è in due romanzi, in particolare, che emerge chiaramente il ruolo salvifico affidato alla donna. In Memoriale del convento (1982) una delle figure principali è Blimunda, la veggente, che ha la straordinaria capacità di scrutare dentro le persone. È proprio grazie a questa sua capacità che verrà attuato un sogno, quello della costruzione di un aerostato il cui propulsore era costituito da un gas particolare: la volontà degli uomini. E Blimunda, con la sua capacità di vedere all’interno degli uomini, riesce a far alzare in cielo la macchina volante. È la grande, interminabile conversazione delle donne, dice Saramago che trattiene il mondo nella sua orbita.

Nell’altro suo capolavoro, Cecità (1995), la “moglie del medico” è l’unica che conserva la capacità di visione in un contesto in cui un’inspiegabile epidemia causa la cecità dell’intera popolazione, generando terrore e violenza. Sarà infatti proprio la “moglie del medico” ad essere presa come punto di riferimento, non solo in quanto guida in una città devastata, ma anche in quanto persona dotata di consapevolezza e maturità.

C’è una interessantissima lectio on-line della professoressa Orietta Abbati, dell’Università di Torino, che ha avuto tra l’altro l’opportunità di conoscere personalmente Saramago, in cui viene riportato il pensiero dello scrittore a tale proposito:

I miei personaggi davvero forti, veramente solidi, sono sempre figure femminili. Probabilmente questo deriva dal fatto che la parte dell’umanità su cui nutro ancora una speranza è la donna.

Quando sua moglie Pilar, che oggi è Presidentessa della Fondazione Saramago (guai chiamarla Presidente! Al contrario di altre scelte a noi note, lei lo vieta assolutamente), gli chiese negli ultimi tempi Cosa vuoi che io faccia?, Saramago rispose: Continuar-me. Continuarmi. Continuare Saramago! Che responsabilità! E come si fa a continuare Saramago? Credo che nella prodigiosa capacità di accordare le voci dei suoi personaggi, in quella sua percezione polifonica del mondo, anche con quel suo stile che si caratterizza per la sua oralità, pretendendo un lettore attivo, che metta egli stesso il ritmo nella lettura, il messaggio dell’opera di Saramago sia l’intolleranza verso tutte le ingiustizie e il rischio di diventare disumani.

Sto aspettando, ormai da troppo tempo, diceva ancora, che la donna si decida a svolgere nel mondo il ruolo che non sia di mera competitrice nei confronti dell’uomo. Se è solo per prendere il posto che l’uomo ha sempre avuto nel corso della Storia, non ne vale la pena. Ciò che serve all’umanità è qualcosa di nuovo, che io non so definire, ma sono ancora convinto che venga dalla donna. Quello che mi preoccupa, è che quando la donna arriva al potere tutto questo si perda.

(pubblicato nella Gazzetta del Mezzogiorno del 16 novembre 2022)

©Rita Lopez

Tabucchi e l’importanza del tempo

Lessi “Sostiene Pereira”, di Antonio Tabucchi, nei giorni successivi alla nascita della mia prima figlia. La mia famiglia era lontana, mio marito era fuori tutto il giorno per lavoro e quindi, per la prima volta in vita mia, dovevo imparare a gestire lunghe ore da trascorrere a casa da sola con la bambina. Dovevo riorganizzare, in un modo tutto nuovo, il mio tempo. Leggevo tra una poppata e l’altra, tra un cambio di pannolini e l’altro, tra un sonno e l’altro della piccola. Quella lettura fu di ottima compagnia in un periodo di rodaggio della mia nuova vita. Ricordo, come mi accade per i libri più belli, di essermi dispiaciuta per averlo finito di leggere. I libri belli sono come i figli. Vorresti che non ti lasciassero mai. Il mio amore per Tabucchi è iniziato allora.

In questi giorni in cui si ricorda il decennale della sua morte, della morte di uno degli scrittori italiani più grandi, più conosciuti all’estero, tradotto in oltre quaranta lingue, leggo bellissimi articoli che sottolineano l’importanza enorme della sua opera narrativa. Ma è la sua ossessione per il tempo che mi ha sempre affascinato. Anche il concetto di letteratura è fortemente legato al tempo. “Si scrive perché si ha paura della morte? O perché si ha paura della vita? Si scrive perché si ha nostalgia dell’infanzia che è passata troppo in fretta? O perché il tempo sta passando troppo alla svelta e vorremmo che andasse più piano? Si scrive per rimpianto, perché avremmo voluto fare una certa cosa e non l’abbiamo fatta? O si scrive per rimorso, perché non avremmo dovuto fare una certa cosa e invece l’abbiamo fatta? Si scrive perché si è qui, ma vorremmo essere là? O si scrive perché si è andati là, ma tutto sommato era meglio se si restava qua?”.

Diceva Tabucchi in una vecchia intervista, che il tempo è così fondamentale perché è la nostra vita. Ma ciò che noi chiamiamo tempo è una strana creatura. Non sappiamo bene cosa sia. Forse, diceva, per avere un senso, il tempo deve essere raccontato attraverso una formulazione narrativa. Ecco! L’importanza del racconto. Il racconto inteso come il senso che acquisisce un avvenimento che, altrimenti, avrebbe la stessa insulsa consistenza di un “pollo in gelatina”. Tutti noi non facciamo altro che raccontarci il nostro tempo, anche se non scriviamo. Ne “Il tempo invecchia in fretta”, del 2009, il cui titolo si rifà a un frammento del presocratico Crizia, c’è tutta la preoccupazione per un tempo sprecato a seguire false illusioni, facendoci perdere di vista la nostra vita. Cos’è allora il tempo? “Se nessuno me lo chiede, lo so” diceva Sant’Agostino “Se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più”.

Non posso non ripensare a quello che è stato definito “il tempo sprecato”, “il tempo che ci è stato rubato”, al “troppo tempo” che abbiamo avuto a disposizione durante questi due ultimi difficilissimi anni. Avere la possibilità di vivere pienamente il tempo che ci viene dato è un dono prezioso e il nostro tempo è troppo corto per essere sciupato. Essere sincronici con il tempo è vitale. E tanto è gratificante viaggiare in sincronia con questo nostro tempo, tanto è frustrante sentire di trovarsi in un altro fuso orario. Forse il disorientamento che gli avvenimenti recenti hanno provocato in tanti di noi, deriva proprio dalla mancanza di questo rapporto sincronico.

Ho saputo ri-adattarmi alla diversa disposizione del mio tempo quando sono nate le mie figlie. E mi sono ri-adattata alla terribile sensazione del tempo che stava finendo, quando mia madre era agonizzante in un letto d’ospedale, ma non sono stata mai capace di sincronizzarmi con il tempo stravolto da quei terribili mesi sospesi, che tutti noi siamo stati costretti a vivere.

So per certo che questa parentesi, questa mancanza del tempo dell’esistenza, che è diverso dal tempo misurabile, dal tempo fisico, sarà la cicatrice che mi porterò sempre addosso.

© RitaLopez

La “lapidazione” come metodo catartico

Ripenso spesso, in questi giorni, a un filmato atroce che mi capitò di vedere, tempo fa, sul web. Al centro di un campo secco e ricoperto di sassi, in un paese molto lontano dal nostro, era stata scavata una buca profonda. Si percepiva dalle immagini che doveva fare tanto caldo, nonostante fosse mattina presto. Persino le montagne aride, che si stagliavano all’orizzonte di quel campo brullo, lasciavano presagire l’afa impietosa che in poco tempo avrebbe impregnato l’aria. C’erano uomini attorno alla buca, una trentina, alcuni in piedi, altri accovacciati sulle ginocchia, che attendevano lo spettacolo. Avevano i telefonini in mano, pronti per filmare l’avvenimento. Dentro la buca c’era una donna, una adultera, avvolta nel suo abito lungo e nero. Aveva le braccia tenute ferme da una grossa corda, legate strette ai lati del corpo. Nella buca iniziarono ad essere scagliate le prime pietre.

I gemiti della donna echeggiavano nel campo riarso. Pietra dopo pietra, i gemiti diventavano lamenti che si alzavano verso il cielo bianco. E pietra dopo pietra, i lamenti diventavano grida strazianti. Dopo, il silenzio. Solo allora gli uomini esultavano, per poi allontanarsi, soddisfatti, a gruppetti di due, di tre.

Ricordo che fui scandalizzata da questa loro esultanza, da quell’essere “tutti contro uno” come forma più becera di giustizialismo. C’era una sorta di rito catartico, di esorcismo collettivo, nella esposizione e nell’annientamento del corpo di quella donna, che inevitabilmente ripensai alla logica tribale del sacrificio nelle società più antiche.

Ma la cosa sorprendente è come questo bisogno abominevole di mostrare tangibilmente la condanna sul corpo femminile, esponendola al pubblico ludibrio, si ritrovi puntualmente nel corso della storia. Anche della nostra storia. La Vestale romana colpevole di incestum veniva sepolta viva in una sorta di delitto religioso legalizzato. L’isteria di massa che impazzava con la caccia alle streghe, torturate e bruciate vive, trovava sfogo nello scegliere la vittima su cui far convergere il biasimo di tutta la comunità. Nella nostra modernissima società, la Rete non fa altro che fungere da formidabile moltiplicatore dell’indignazione popolare. Alla Rete non si sfugge. La Rete che rende liberi e degni di parola ognuno di noi, in una brodaglia di amorevole democrazia, rende schiavi altri, soprattutto se questi “altri” sono donne. La costruzione del capro espiatorio raggiunge il tripudio nell’intreccio nocivo tra propaganda, manipolazione, pregiudizi e credenze.

Il corpo della donna sottoposto alla lapidazione è una costante. Si può essere lapidate anche da migliaia di “mi piace”, da altrettante visualizzazioni, dalla processione aberrante di forche giudicanti che mettono alla gogna.

Eravamo nel V sec. a.C. quando l’Ifigenia euripidea affermava che “La vita di un solo uomo vale di più di quella di infinite donne”, accettando in questo modo il sacrificio del proprio corpo, per cercare di riscattarsi da un universo androcentrico. Siamo nell’età contemporanea quando René Girard, antropologo e filosofo francese di fama mondiale, constatava che “È criminale uccidere la vittima perché essa è sacra… ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse”.

© RitaLopez

L’influenza di Annie Ernaux nella nostra autoconsapevolezza di essere donne

Quando lo Stato italiano depenalizzò e disciplinò le modalità di accesso all’aborto, era la fine degli anni Settanta e io frequentavo la scuola media. Ricordo, negli anni immediatamente precedenti, le manifestazioni delle studentesse più grandi, dei licei e delle università, lungo le vie del centro della mia città e noi, più piccole, che le seguivamo. Ricordo i lazzi, le battute volgari, gli sfottò degli uomini (ma anche delle donne), che guardavano passare il corteo davanti ai loro occhi. E più il corteo penetrava nelle vie lussuose del centro, più le battute diventavano volgari. Ricordo che la cosa che mi lasciò interdetta fu il fatto di constatare l’abisso che c’era tra quelle giovani manifestanti e la gente che le biasimava, secondo la quale l’idea di fondo, incontrovertibile, era che l’interruzione di gravidanza fosse comunque, in ogni caso, da qualsiasi punto di vista, un “reato”. Un reato e basta. Eppure, io avevo conosciuto un paio di ragazze, se non di più, figlie di quella stessa gente, che erano rimaste incinta. I loro genitori in tutta fretta, ma con la massima discrezione, e soprattutto avendo i soldi per poter pagare, le mandarono di corsa ad abortire clandestinamente, con tutti i rischi di complicazioni gravi o addirittura di morte che ne sarebbero potuti seguire. Ecco, in quei casi la gente si girava dall’altra parte, come se “il reato” non sussistesse più o, comunque, appartenesse solo ed esclusivamente alla ragazza. Fosse un problema suo e di nessun altro. Tantomeno di quello che, incinta, ce l’aveva messa.

C’è un libro, bellissimo, di Annie Ernaux, L’evento, in cui lei stessa racconta la personale, atroce esperienza di un aborto clandestino.

«Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto» scrive «appartenga al passato, non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che “le cose sono cambiate”. Ciò che è accaduto resta coperto dallo stesso silenzio di prima. È proprio perché nessun divieto pesa più sull’aborto che, mettendo da parte la percezione collettiva e le formule necessariamente semplificate, imposte dalle battaglie degli anni Settanta – “violenza sulle donne” eccetera -, io posso affrontare, in tutta la sua realtà, questo evento indimenticabile».

Ma la prima volta che io lessi Annie Ernaux sarebbe stato anni dopo. Era il tempo in cui noi ragazze avevamo treccine sottili tra i capelli. Studiavamo a gambe incrociate sul letto disseminato di cuscini, in inverno. All’ombra degli alberi dello studentato, in estate. Insieme ai ragazzi, naturalmente.

Era il tempo dello stupore nello scoprire i nostri corpi. Il tempo della consapevolezza di essere sfuggite per sempre dal pudore castigato delle nostre madri. Ci sentivamo finalmente liberate da quel senso di diffidenza, da quel senso di colpa che ci piombava addosso ogni volta che intuivamo che forse stavamo esponendo troppo le nostre gambe, i nostri fianchi, i nostri seni. Che forse i nostri abiti erano troppo trasparenti. Troppo attillati. Troppo corti. Bastava lo sguardo ammiccante di un uomo per strada. Bastava lo sguardo di riprovazione delle donne della nostra famiglia.

E invece quello era il tempo in cui volevamo prenderci a tutti i costi le nostre libertà, compreso quella sessuale.

Le mie amiche di stanza mi prendevano in giro perché avevo l’abitudine di spogliarmi con la faccia rivolta alla parete, dove era appeso il poster del Che. Dicevano che ogni volta che mi toglievo il reggiseno, Guevara si rivoltava nella tomba.

Invidiavo tantissimo la naturalezza e l’orgoglio dei miei amici maschi nel mostrare i loro corpi. Nonostante quelli fossero i tempi della nostra rivoluzione, e della mia in particolare, quel senso di disagio inculcatomi da bambina, che mi faceva percepire il mio corpo, in quanto femmina, come qualcosa da tutelare dagli occhi altrui, era la condanna che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Una sorta di autoproclamazione della mia inferiorità. Una roba che mi faceva arrabbiare da morire.

L’Accademia di Svezia ha assegnato il Nobel ad Annie Ernaux, 82 anni, “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui ha svelato le radici, gli straniamenti ei vincoli collettivi della memoria personale”.

In quegli straniamenti, in quei vincoli, ci sono anch’io. Grazie Annie.

©Rita Lopez

Un viaggio a ritroso nel tempo

Era da tantissimo tempo che volevo visitare il Museo Archeologico di Santa Scolastica, nella Città vecchia, ma sono talmente tante le cose che ho da fare ogni volta che vengo a Bari, che succede sempre che io riparta promettendo a me stessa di vederlo “la prossima volta”. Ma ogni “prossima volta” è come la volta precedente. E allora ho deciso di ritagliarmi una mattinata tutta per me.

È incredibile come l’essenza di una città sia il risultato di una serie di storie che riaffiorano da un passato lontanissimo e che in qualche modo impregnano in maniera indelebile i monumenti, le strade su cui camminiamo, l’aria stessa che respiriamo. È un po’ come avviene anche per gli esseri umani. Siamo il risultato di tutte le esperienze che abbiamo vissuto. Ed è incredibile come un Museo possa diventare il luogo perfetto in cui l’immagine finale che noi abbiamo di una città, si scompone magicamente in una serie di diapositive che ne rivelano la trasformazione e la metamorfosi. Questo viaggio a ritroso nel tempo inizia con il Monastero benedettino di Santa Scolastica, citato per la prima volta in un documento del 1102, e che si sviluppò attorno a una chiesa, nucleo originario, di cui rimangono oggi solo i resti. Subì poi le trasformazioni e gli ampliamenti più importanti grazie alla intraprendenza di una donna, la badessa Giusanda Sebaste, che adesso riposa nella sua tomba marmorea, ricavata da un antico sarcofago romano riscalpellato, e la cui generosità è celebrata su un’epigrafe. Una serie di piatti, ciotole, boccali, vasi da tavola e da dispensa mi riportano alla vita austera del monastero, quando in quelle sale risuonavano i passi e le preghiere delle monache, mentre dalle finestre giungeva l’odore del mare, così vicino.

Improvvisamente le diapositive cambiano e mostrano una Bari altomedievale, capitale del Catepanato, con le monete di rame su cui erano ritratti gli imperatori di Bisanzio. E continua, il racconto, ancora più indietro nel tempo, attraverso la rappresentazione della Barium romana. Sono attratta da una stele funeraria del II secolo d.C., ritrovata in via Abate Gimma. Sulla pietra è incisa una dedica indirizzata a un ragazzo di nome Cnaeus Herrius Severus. I suoi genitori compiangono il figlio amatissimo, morto a soli diciassette anni, che faceva il vogatore. Sotto l’epigrafe è raffigurata la sua piccola imbarcazione. Sembra una di quelle barche ormeggiate nel porto vecchio.

Le diapositive scorrono e scorrono ancora, fino a svelare l’immagine di una Bari in età classico-ellenistica. Davanti a me si stende un profluvio di vasi e produzioni ceramiche di una bellezza e raffinatezza uniche, con scene mutuate dalla mitologia greca che raccontano la storia affascinante e complessa del rapporto tra le genti locali e quelle provenienti dal mare. Il mare. Il mare fa sempre da sfondo in questo racconto della memoria. Dal mare arriva il pericolo, ma il mare è anche simbolo di apertura e di scambio.

E la storia si dipana ancora negli strati più antichi e mi parla dei nostri antenati, i Peucezi, abitanti e difensori della nostra Terra, che in quel periodo aveva già assunto le sembianze di un vero e proprio centro urbano, dotato di mura difensive. Immagino i soldati valorosi, con i loro elmi severi di bronzo, che incutevano timore. E mi lascio trascinare ancora più indietro nel tempo, proprio sul fondo della sequenza stratigrafica, fino a scoprire il primo insediamento della mia città: un villaggio di capanne dell’età del Bronzo, delimitato da muretti in pietra e argilla. Il mio viaggio a ritroso termina davanti a una teca che conserva lo scheletro rannicchiato di un ragazzo di appena quindici anni. Dall’analisi dell’osso occipitale del cranio e della colonna vertebrale, delle spalle e dei gomiti, gli studiosi hanno dedotto che le sue attività lavorative quotidiane si svolgessero con l’impiego di sovraccarichi. Mi soffermo a lungo davanti al suo corpo addormentato da secoli. Questo giovane, che ha abitato sulla mia Terra 6500 anni prima di me, mi fa quasi tenerezza. Mi piace pensare che tutta la mia storia parta da lui.

Esco dal Museo che è mezzogiorno passato. La strada bianca sulla muraglia è accecante e il mare è di un azzurro intenso. Provo una sorta di gratitudine nei confronti di Bari, per avermi svelato il lungo racconto della sua memoria e mi vengono in mente le parole del professor Andrea Carandini quando, al termine di una lezione, ci disse:

“Si cerca il limite oltre il quale non c’è più nulla. Si va indietro, indietro, indietro. Perché? Chi ce lo fa fare? Semplice: ogni uomo non può fare a meno della sua origine. E lo stesso dicasi per la città”.

©ritalopez

Lo zainetto rosso di Saman

Novellara si trova nel centro esatto dell’Emilia Romagna, nel cuore della pianura Padana. Distante un’infinità di chilometri sia dal mar Adriatico che dal mar Ligure. Un tempo, qui, c’erano solo estese paludi, ma poi l’area è stata bonificata. Per gran parte dell’anno nebbie cupe e persistenti calano su tutta la zona circostante, rendendo difficile la vista, da lontano. Strade, case, alberi sono offuscati da questa bruma densa e ovattata, che rende l’aria di un colore grigiastro, uniforme.  

In quei giorni sbiaditi, solo lo zainetto rosso di mia sorella spiccava lungo la via sterrata che si dirige verso casa nostra. Dietro i vetri della finestra riuscivo a scorgerlo da lontano, il suo zainetto rosso. Alla vista di quel guizzo di colore, in mezzo alla foschia, sapevo che Saman, mia sorella, stava tornando. Era rientrata dalla comunità cui era stata affidata, ma era tornata più ribelle che mai, secondo il punto di vista dei miei genitori. Ogni volta che Saman era a casa, litigava furiosamente con loro. Voleva decidere lei se sposarsi. Chi sposare. Voleva andare via. Si strappava il velo nero che mia madre le imponeva di indossare. Lo scaraventava per terra. I suoi capelli lunghi e ricci sembravano esplodere e aggrovigliarsi scandalosamente lungo i suoi fianchi.  

Era bella Saman. A volte l’ho spiata mentre si truccava davanti allo specchio, nella sua stanza. Tirava fuori il rossetto dal suo zainetto rosso e se lo passava sulle labbra a forma di cuore. Si guardava allo specchio. Si pavoneggiava. Sorrideva a sé stessa. Sorridevo anch’io. Sorridevo a tutte e due: alla ragazza dalla bocca a cuore e a quella con il velo nero sulla testa.  

Un giorno sentii mia madre che diceva a mio padre: “Le parole, con lei, non bastano più”. Non capii a cosa si riferisse, ma adesso ho ricollegato tutto. La notte del Primo Maggio mia sorella, quella con la fascia nei capelli e il rossetto sulle labbra a cuore, si avviava col suo zainetto rosso sulle spalle, lungo la via sterrata che porta ai campi. Ad aspettarla c’erano mio zio e i miei cugini, armati di pale.  

Servirono solo tredici minuti. Tredici minuti per punire la ragazza indegna. Tredici minuti per “un lavoro fatto bene”. Tredici minuti per riparare all’onta, per restituire l’onore alla famiglia. Dalle immagini della telecamera di sorveglianza in cui si vede Saman, mia sorella, andare verso il suo patibolo, alle immagini in cui mio padre torna, portando tra le mani il suo zainetto rosso, passano tredici minuti.  

Saman, la ragazza con la bocca rossa a cuore, non c’è più. Ma non c’è più neanche l’altra, quella costretta a indossare il velo nero. Perché ogni ragazza del mondo che decide di opporsi alle nozze combinate, ha il diritto di dire no. Perché quello che è successo a mia sorella con la bocca a cuore e all’altra ragazza col velo nero sulla testa, si chiama “violenza contro le donne”.  

Si chiama “femminicidio”.  

L’unica cosa che c’è, che è rimasta, che sempre rimarrà, pesante e fitta come la nebbia, è l’“onore” che credono preservato, così disgustosamente fetido di morte.  

©Rita Lopez

La storia d’amore del partigiano venuto da lontano

Era un giorno di aprile caldo e pieno di sole, ma il Monte Amaro, che svettava possente sulla vasta Conca Peligna, era ancora ricoperto di neve. Lisa aveva appena richiuso le capre nel recinto. Aveva sollevato il secchio pesante, ricolmo di latte appena munto, e si stava incamminando lungo il sentiero che la riportava alla fattoria, dove sua madre l’aspettava per fare il formaggio. Si accorse di lui per caso. Un giovane. Era sdraiato sotto il grosso faggio selvatico, seminascosto dagli arbusti del sottobosco. Lasciò cadere il secchio per lo spavento. Il latte si versò sull’erba bagnata di rugiada. Si avvicinò piano al ragazzo. Sembrava morto. Indossava una giacca militare e portava un fazzoletto rosso al collo. Le sue scarpe erano rotte e consunte. Sicuramente avevano camminato a lungo. La gamba destra del pantalone era intrisa di sangue. Lisa si inginocchiò e con la mano tremante gli toccò la spalla. Era sicura che fosse morto. Il ragazzo aprì gli occhi e, a fatica, riuscì a mala pena a sussurrare: “aiutami, ti prego”.

Soltanto la giovane Lisa e le sue sorelle sapevano del partigiano ferito, che avevano trasportato nel pagliaio sotto gli alberi di melo. Era un vecchio pagliaio in disuso, che prima o poi sarebbe stato smantellato. Uno di quei pagliai di cui sono disseminate le vallate abruzzesi. Lisa aveva convinto le sue sorelle a mantenere il segreto. Alla fine, alle ragazze, il giovane aveva fatto pena. Non riusciva ancora a camminare e continuava a perdere sangue dalla ferita. Decisero di prendersi cura di lui, rischiando la loro stessa vita.A Lisa toccava portargli da mangiare. Ogni giorno.Pane, formaggio, vino. Roba semplice. Roba buona di quelle montagne d’Abruzzo.

Doveva recarsi al pagliaio due volte al giorno e poi tornare di filato a casa. Così le aveva ordinato severamente sua sorella maggiore, puntandole il dito contro.E invece Lisa si fermava sempre a parlare col giovane partigiano. Un pochino. Solo un pochino. Sua sorella non se ne sarebbe accorta.Si chiamava Saverio ed era di Bari. Una città lontana, una città col mare. Saverio le raccontava di come in quella città, dove lui era nato, la gente amasse attardarsi le sere d’estate nei pressi del porto vecchio, illuminato a festa, a mangiare cozze crude e a bere birra ghiacciata. Le raccontava di come i pescatori usassero scrivere il nome della propria donna sulle loro barche. Di come le donne aspettassero trepidanti il rientro degli uomini, nei giorni di mare mosso, affacciate alla muraglia a scrutare l’orizzonte. Lisa lo ascoltava, rapita. Per lei, cresciuta tra le possenti montagne abruzzesi, quei racconti erano affascinanti come un libro di favole.

Saverio diceva anche che le donne della sua città amavano ridere e quando ridevano, diventavano ancora più belle.Ogni volta che gli portava da mangiare, Lisa gli controllava la ferita e poi si sedeva su un grosso ciocco di legno e gli chiedeva di raccontargli ancora della sua città.

E Saverio le regalava sempre qualche storia… e poi qualche bacio… e poi qualche abbraccio…“Vorrei che tu non guarissi mai, che non guarissi più”, gli confidò lei, un giorno che scoppiò un temporale improvviso. Saverio la strinse a sé e rimasero abbracciati nel fieno, a lungo, ad aspettare che l’acquazzone cessasse. I capelli di Lisa odoravano di pioggia.

Mesi dopo, quando la guerra era ormai finita, il giovane partigiano tornò a casa, nella sua bella città di mare. Lisa, a volte, si sedeva davanti alla finestra della fattoria e scrutava il massiccio del Monte Amaro, meraviglioso e spietato come le montagne della sua terra. Ripensava al partigiano ferito e una morsa di dolore le stringeva la gola. Un giorno, mentre piantava insalata e scarola, lo vide spuntare in fondo al frutteto, quello oltre il pagliaio sotto i meli.

Mio zio Saverio, fratello più grande di mio padre, era tornato a prenderla.

Zia Lisa, ancora oggi, quando mi racconta questa storia, ha la voce che le trema. Ha novant’anni, ma gli occhi sono quelli di una ragazzina per sempre innamorata del suo partigiano.

(Pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 25 aprile 2021).

Dante e i Clash

Erano i tempi del liceo. Io e Roberto saremmo dovuti partire a Milano per il concerto dei Clash. In autostop, naturalmente. Da autentici nullatenenti. Avevamo organizzato tutto nei minimi dettagli ed io ero emozionatissima. Avevo mentito con i miei genitori sul fatto che avrei preso il treno. Che sarei stata ospite di una zia di Roberto. Che avevamo già acquistato i biglietti… Era il primo vero mini-tour della band previsto in Italia e noi ragazzi, amanti del rock dell’epoca, adoravamo visceralmente i Clash. Li adoravamo come nessun altro pubblico in Europa e nel mondo.  Successe però che Roberto seppe che rischiava di essere rimandato a settembre e la nostra prof gli propose, come ultima chance, di preparare una relazione che lui avrebbe dovuto discutere davanti a tutta la classe. Una relazione! Capite? Su Dante. Give ‘em enough rope! Ecco. La mia antipatia verso Dante, in quel momento, raggiunse il suo apice. Senza Roberto i miei genitori non mi avrebbero certo lasciato andare a Milano. Fine della storia. Naturalmente lui mi chiese di aiutarlo a studiare. Passammo pomeriggi interi sul XXVI canto della Divina Commedia, mentre in testa mi rimbombavano gli accordi graffianti di London Calling. E mi veniva da piangere.

Una cosa che mi indispettiva moltissimo, era il fatto che Dante avesse posto Ulisse nell’Inferno. Perché? Per quale motivo? Per me Ulisse era il simbolo della brama della conoscenza, del sapere, in tutte le sue manifestazioni e invece Dante me lo relegava nell’ottavo girone dell’Inferno, Straight to Hell (!!!), insieme ai consiglieri fraudolenti.  Durante il loro incontro, Ulisse raccontò  a Dante che neanche la nostalgia verso il vecchio padre o l’amore per il figlio erano riusciti a trattenerlo dalla voglia di esplorare il mondo. Una vera anima rock! E così, insieme ai suoi compagni, intraprese il suo viaggio nel Mediterraneo e continuò imperterrito a navigare, sempre più lontano, verso ovest, fino a spingersi all’ingresso dello stretto di Gibilterra, il luogo dove Ercole aveva posto le famose colonne. Le colonne d’Ercole, come ben sapete, nella letteratura classica occidentale rappresentavano non solo un limite geografico, ma anche, metaforicamente, il limite imposto alla conoscenza. Limite oltre il quale c’era l’ignoto. Should I stay or should I go?  Di fronte alle colonne d’Ercole Ulisse, dall’anima rock, decise di non  fermarsi, anzi esortò i suoi compagni a oltrepassarle, ad andare avanti e a continuare la navigazione. Da qui la punizione divina. Dopo un mese di nulla totale, videro in lontananza una montagna, ma l’allegria cedette subito il posto alla disperazione, perché da questa montagna arrivò una tempesta di proporzioni inaudite che travolse la nave dell’eroe greco e la fece inabissare sotto le acque del mare.

Questa amara inquietudine di Ulisse, che ai tempi del liceo me lo facevano sembrare così squisitamente umano, oltre che, come ho detto, molto rock, veniva dunque rappresentata da Dante con una connotazione totalmente negativa. Quella di Ulisse è un tipo di conoscenza, per Dante, smodata. Il poeta, in totale disaccordo con il mio sentire di adolescente, puniva Ulisse e lo poneva nel girone dell’inferno perché la conoscenza di Ulisse non era dettata da virtù, ma da superbia. Superbia che avrebbe portato alla rovina sé stesso e i suoi compagni.

Questa cosa non mi piaceva per niente. Non la sopportavo. È solo col tempo, solo col passare degli anni, che ho fatto pace con Dante. Allora, a parte il fatto che era stato la causa dello sgretolarsi del mio sogno di andare a Milano, non capivo che comunque Dante era un uomo del suo tempo, fortemente permeato da un sentire religioso. Non capivo perché ai suoi occhi l’eroe greco rappresentasse un tipo di conoscenza spinta dalla trasgressione, e per questo punibile, quando invece per me era il tipo di conoscenza più intrigante. E poi ho fatto pace con Dante soprattutto quando, nel momento in cui Ulisse incita i suoi compagni a oltrepassare le colonne d’Ercole, gli mette in bocca un discorso che è di una eloquenza e una poesia sublime.

O frati che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza. Fatti non foste a viver come bruti, ma per servir virtute e canoscenza.

Quello che Dante non sapeva, non poteva sapere, perché accadde non molti anni dopo la sua morte, è che comunque le colonne d’Ercole furono vittoriosamente violate e da allora si sparse la notizia, in tutta l’Europa, della scoperta delle isole Canarie.

La storia ha dato dunque ragione all’Ulisse omerico, che rappresenta comunque l’intelligenza e la curiosità umana, che non possono essere frenate. I fought the law!

Per chi lo volesse sapere, Roberto declamò con successo la sua relazione davanti alla classe e non fu rimandato. Il concerto dei Clash rimase una spina nel fianco. In compenso, a giugno, a Milano ci andammo lo stesso. A vedere i Dire Straits. In treno però. Expresso Love!

Rita Lopez

Oggi è il giorno in cui Fabricius diventa uomo

È l’alba del 17 marzo, il giorno della festa dei Liberalia, dedicata al dio Liber, il cui tempio è sull’Aventino. 

Sono sveglia già da ore. Mi alzo dal letto e in punta di piedi mi avvicino alla finestra per spiare nella stanza di Fabricius, che abita nella casa di fronte alla mia. 
Il ragazzo di cui sono innamorata compie sedici anni e insieme agli altri giovani della sua età, festeggerà oggi il passaggio allo stato di uomo. Fabricius si toglierà la bulla, la collana che i bambini ricevono quando sono ancora in fasce, come simbolo di protezione, e la deporrà sul piccolo altare dei Lari, gli spiriti protettori dei nostri antenati. Accanto alla bulla lascerà anche una ciocca dei suoi capelli castani e la prima rasatura della sua barba ancora sottile. Poi il mio amato si sfilerà la toga praetexta bordata di porpora, quella che portano i ragazzi, ed io mi sentirò morire alla vista di quelle spalle che conosco così bene e di quelle braccia che mi stringono forte, di nascosto, ogni volta che attraverso con lui l’ingresso buio di casa mia, mentre i miei fratelli più piccoli giocano rincorrendosi nell’atrio. 

Sua madre gli porgerà la toga virile, quella che portano gli uomini, bianca, come i petali del giglio. Fabricius farà colazione con un uovo, che rappresenta un nuovo inizio, e con una focaccia di latte e farro. Infine uscirà per strada e guarderà alla mia finestra, sapendo che io sto dietro le imposte. Il cuore mi batterà forte nel petto. 

Lo vedrò seguire la processione diretta al tempio, sull’Aventino, mentre le sacerdotesse del dio Liber, con i lunghi capelli intrecciati con rami di edera, offriranno alla folla torte impastate con olio e miele. Ci saranno sacrifici, e musiche, e maschere appese ai rami ad adornare gli alberi. Un grande fallo, in cima ad una pertica, precederà la processione, per augurare fertilità alla terra e agli uomini. Io aspetterò a casa mia, affacciata alla finestra, fino al tramonto.

Aspetterò paziente il ritorno di Fabricius. 

Quando lui arriverà, solleverà la testa e mi vedrà. 

Per la prima volta mi guarderà con gli occhi di uomo.

©RitaLopez

La leggenda del lago

C’è una storia che i miei nipoti amano ascoltare di continuo. “Nonno” mi chiedono, “parlaci della leggenda del lago!”. Come non accontentarli? Anche io, da bambino, non mi stancavo mai di sentirla ripetere da mio padre, che a sua volta se la faceva raccontare da suo padre che era un pescatore nel lago di Nemi. La mia famiglia abita da generazioni qui, a Nemi, un paese bellissimo, affacciato sul cratere di un antichissimo lago vulcanico. Nelle notti di luna piena la superficie dell’acqua brilla come uno specchio. Per questo il lago veniva anche chiamato “lo specchio di Diana”, la dea che a Nemi era celebrata in un santuario a lei dedicato. I miei nipoti mi si stringono in cerchio.

La storia parla di due grandi navi che rimasero per quasi duemila anni sul fondo del lago. La loro presenza nelle acque buie e profonde era stata narrata fin dal I secolo dopo Cristo, fino a trasformarsi in leggenda nei secoli successivi. Di generazione in generazione si continuò a favoleggiare delle due grandi navi romane affondate nello “specchio di Diana”. Fu Caligola, il re “folle” a farle costruire lì, sul lago. Erano due navi immense, magnificenti. Si diceva che fossero in legno di cedro. Che fossero abbellite in maniera sfarzosa con decorazioni preziose. Che le prue fossero dei gioielli. Che fosse piena di sculture rotanti su sfere di piombo. Che fosse stracolma di vasi d’oro e d’argento. Pavimenti in marmi e mosaici. Balaustre. Edicole sostenute da colonne. Padiglioni coperti da tegole in terracotta e rame. Che le sue vele fossero di seta viola. Che il giovane re facesse il bagno in vasche di bronzo e alabastro.

I miei nipoti spalancano gli occhi.

Si tramandava che l’imperatore Caligola, passato alla storia come uomo crudele e dissoluto, celebrasse su queste navi festini sfarzosi e desse sfogo con orge ai suoi vizi depravati. Il giovane imperatore fu assassinato a soli 28 anni e insieme a lui la maledizione colpì anche le sue splendide navi. I senatori, per cancellarne il ricordo, fecero distruggere tutte le opere da lui costruite. Tra queste, anche le due imbarcazioni sul lago, che furono fatte affondare. Ma la leggenda delle navi attraversò i secoli. Generazioni di pescatori stupefatti, molto spesso, insieme alle reti, issavano in superficie ora pezzi di legno finemente lavorati, ora oggetti preziosi. Con l’avvento del regime fascista e il trionfo della romanità, la leggenda delle navi funzionò da potente mezzo di propaganda. Dopo anni di lavoro, il lago fu letteralmente prosciugato e le due navi rividero la luce.

I miei nipoti battono le mani e sorridono.

Le imbarcazioni furono portate a riva e messe al riparo in un museo che fu costruito proprio per l’occasione. E poi arrivò la guerra, con tutto il suo bagaglio di follia. La notte del 31 maggio 1944, si sparse la notizia che i soldati tedeschi, in ritirata, avessero appiccato l’incendio alle navi. Per sfregio. Il giorno dopo, al posto delle due imbarcazioni, c’era soltanto un enorme, fumante cumulo di cenere. I miei nipoti mi guardano commossi. Le due navi, realizzazione folle di un imperatore folle, che pure resistettero per due millenni sott’acqua, scomparirono nel giro di una notte folle, in seguito a un gesto folle. Le navi di Caligola che erano state leggenda e che per breve tempo divennero realtà, tornarono per sempre ad essere leggenda.

I miei nipoti mi guardano increduli.

Pensano che sia tutta una storia inventata.

(Il mio pezzo pubblicato ieri sul Blog di Beppe Lopez).





L’amore tossico

Ti ho amato dal primo momento che ho saputo di te. Ti ho immaginato nuotare nel mio corpo come un piccolo pesce in una boccia d’acqua. Mio figlio, pensavo. Lui è mio figlio. Ti sei fatto spazio nella mia carne fino a lacerarla. Ti sei nutrito al mio seno. Hai preso il mio sonno, catturato il mio tempo. Ti ho curato quando stavi male. Ti ho stretto tra le braccia quando avevi paura. Mi sono sciolta in goccioline di stupore di fronte al tuo sorriso. Ti ho sollevato quando sei caduto. Ti sei addormentato decine di volte sul mio petto. Ti ho sempre perdonato. Sempre. Ho sorvolato su ogni tuo capriccio. Ho accontentato ogni tuo desiderio. Ti ho rifatto il letto ogni mattina, anche quando sei diventato grande. Ho rimesso a posto i tuoi vestiti. Ho apparecchiato e sparecchiato per te. Il mio piccolo principe di casa. Ti ho sempre giustificato. Sempre assecondato. Il mio piccolo grande tiranno. Ti ho difeso anche quando avevi torto. Ti ho elogiato anche quando eri mediocre. Ti ho esaltato per ogni singola idiozia. Ho esaminato dalla testa ai piedi le fidanzate che portavi a casa. Ho giudicato ognuna di loro severamente e nessuna mi sembrava mai adatta a te. Nessuna mi sembrava mai alla tua altezza. Nessuna ai miei occhi avrebbe potuto darti la devozione e la dedizione che ti ho dato io. L’amore di una madre a volte può essere soffocante. Esasperante.

L’amore cieco di una madre, a volte, può provocare danni enormi.

Mi piaceva come mi guardavi, il modo in cui mi corteggiavi. I fiori. i cioccolatini. Le passeggiate mano nella mano. Il cinema il sabato sera. Il gelato la domenica pomeriggio. Vuoi essere mia moglie? mi hai detto un giorno. E io mi sono sentita la protagonista di una di quelle favole che mi raccontavano da bambina. Sai, quelle favole a lieto fine, in cui arriva il principe azzurro a svegliarti dal torpore casalingo e ti libera dalla tua vita di ragazza, per portarti finalmente nel suo castello incantato. Sono sua, ho pensato. È mia, hai pensato tu. Solo che poi, giorno dopo giorno, hai smesso di guardarmi. E di corteggiarmi. Niente più fiori, niente più cioccolatini. Niente più passeggiate. Sono diventata la moglie scontata. La cuoca. La stiratrice. L’allevatrice dei tuoi figli. L’infermiera. La contabile. La ragioniera. Sono diventata tutto, tranne la donna per cui un tempo facevi pazzie. Ti ho persino permesso di urlarmi contro, di spintonarmi, di aggredirmi. Durante uno dei nostri litigi mi hai dato uno schiaffo e mi hai detto che dovevo stare zitta. Avevo giurato che te l’avrei fatta pagare, ma poi ho pensato che forse eri nervoso più del solito e ti ho perdonato. Mia madre, quando mi sono confidata con lei, mi ha detto che una brava moglie, una moglie che ama suo marito, deve saper perdonare. Ma gli schiaffi, e le spinte, e le offese, sono continuati. Capita che io sia costretta a nascondere i lividi che porto sulle braccia, sul collo, sulla faccia.

L’amore ottuso di una moglie, a volte, può portare alla rovina.

Quando da piccola mi chiedevano come sarebbe stato il mio principe azzurro, rispondevo: come mio padre. Sognavo un uomo alto, coraggioso, con le mani che odoravano di tabacco e le braccia forti, pronte a difendermi da ogni pericolo. Credo che ogni bambina sia innamorata di suo padre, all’inizio. E anch’io lo ero. Il problema sorge quando quella bambina cresce e sta per diventare donna. Mio fratello non ha avuto i miei problemi. Vero papà? Non ha dovuto litigare ogni volta con te per uscire di casa. Non ha dovuto inventarsi scuse per il fatto di rientrare tardi la sera. Non ha dovuto strepitare. Non ha dovuto giustificare le assenze da scuola. Non ha dovuto spiegare chi fossero le amiche che frequentava. A mio fratello non hai mai chiesto di sparecchiare la tavola, vero papà? Mio fratello ti fumava davanti. Io di nascosto. A lui prestavi la macchina. A me no. Quella volta che è tornato a casa ubriaco, hai fatto finta di niente. Quella volta che sono tornata a casa io, un po’ brilla, mi hai preso a cinghiate. Se mi chiedessero, adesso, come immagino il mio principe azzurro, non sarei più così sicura di volerlo uguale a te.

L’amore ossequioso di una figlia, a volte, può tarpare le ali.

Pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 7 marzo 2021

La pena del sacco

Emilio ha sgozzato nostro padre con la lama affilata di un coltello. Lo ha sgozzato davanti ai miei occhi. Ho visto il sangue uscire a fiotti dalla sua gola e sporcare il mio letto e le mie gambe.  

Emilio è mio fratello minore e oggi viene condannato dal diritto romano criminale, perché accusato di parricidio. Il peggiore dei delitti. 

Eccolo, il fratello con cui giocavo da bambina. Gli hanno fatto indossare degli zoccoli di legno ai piedi e un cappuccio di pelle di lupo sulla testa, perché non possa contaminare il suolo con il suo corpo e l’ambiente circostante con il suo sguardo. Lo costringono a compiere la sua ultima passeggiata infamante, esponendolo al pubblico ludibrio e agli sguardi pieni d’orrore della folla.  

Eccolo, il fratello che prendevo in giro da bambina. Lo frustano con verghe rosse di corniolo, gli squarciano la carne delle spalle e delle gambe, ma neanche un grido esce dalla sua bocca.  

Eccolo, il fratello che spaventavo con le mie storie terribili. Lo richiudono in un enorme sacco di cuoio impermeabile, insieme ad un gallo, un cane, una vipera e una scimmia.  

Il gallo, feroce e battagliero, tanto da terrorizzare persino i leoni.  

Il cane, impuro e immondo, come lo è un parricida.  

La vipera, che nella nostra tradizione partorisce una vipera al giorno e che a volte viene dilaniata dall’interno e uccisa da quelle che hanno fretta di nascere e sono stanche di aspettare.  

La scimmia, considerata la caricatura dell’uomo, così stupida da soffocare talvolta i propri cuccioli con i suoi abbracci.  

L’enorme sacco viene chiuso ermeticamente. Si muove in modo orribile e osceno sulla terra polverosa, tra le risate sguaiate della folla.  

Immagino il forte becco del gallo che si scaglia sugli occhi di mio fratello.  

Immagino la scimmia impaurita che urla e gli strappa i capelli.  

Immagino il cane che morde le sue gambe con la bava alla bocca.  

Immagino la vipera che gli inietta il suo veleno nel petto.  

Prego gli dei di regalargli al più presto la morte, per porre fine al suo supplizio terribile. 

Dopo un tempo interminabile, il sacco viene issato su un carro trainato da un bue nero e portato verso il Tevere. La folla lo segue lentamente e in mezzo alla folla ci sono anch’io.  

Eccolo, il fratello che facevo piangere con i miei pizzichi dispettosi. Gettano il sacco, col suo corpo dilaniato e sbranato, nelle acque del fiume.  

Per la folla affamata di giustizia, il mostro non c’è più.  

Per me non c’è più mio Emilio. L’amico della mia infanzia. Il compagno dei miei giochi. 

Colui che mi ha salvato dalle voglie incestuose di un padre violento.  

Mio fratello. Mio fratello, il parricida, non c’è più.

©RitaLopez

(pubblicato sul Blog di Beppe Lopez l’8 febbraio 2021)

Lo spirito delle Amazzoni

La nostra Terra era una distesa immensa che si allungava dal Mar Nero fino alle steppe dell’Asia Centrale. Scizia si chiamava. E Sciti era il nome del suo popolo misterioso, che qualcuno descrisse come gente dagli occhi cerulei e dai capelli colore del fuoco. Abitavamo in tribù nomadi. Eravamo abili domatori di cavalli, arcieri formidabili. I civilissimi Greci raccontavano su di noi storie terribili. Dicevano che facevamo collezione delle teste dei nemici morti. Che ci dissetavamo col sangue degli avversari caduti in battaglia. Che usavamo le loro pelli per farne degli spaventosi vessilli di guerra. I nostri antenati furono i primi a montare i cavalli. Furono i primi a usare l’arco ricurvo. Tutti i bambini, maschi e femmine, si allenavano a cavalcare e a tirare con l’arco. Le donne cacciavano e combattevano a fianco dei loro uomini, con le stesse armi, lasciando pieni di stupore gli antichi Greci le cui donne, invece, conducevano vite ritirate. Le nostre donne venivano seppellite con le armi, come i loro uomini. Avevano ferite da battaglia sul corpo. Tagli da spada sulle costole. Teschi sfondati da colpi di scure. Frecce calcificate nelle ossa. Esattamente come i loro uomini.

Queste donne, queste guerriere, erano conosciute col nome di Amazzoni. La loro fama e le loro imprese si diffusero sempre di più nell’antica Grecia, fin dai tempi di Omero. I poeti narravano di quando combatterono nella leggendaria guerra di Troia e il loro potente esercito invase Atene. Giasone e gli Argonauti giunsero davanti alle loro spiagge, sfiorando le loro frecce mortali. Queste formidabili combattenti fronteggiarono i più grandi eroi: Eracle, Teseo, Achille. Furono proprio i Greci, che pure ne avevano ripugnanza, a tramandare il loro mito.

Per questo si è sempre creduto che l’origine del nome Amazzone derivasse dalla lingua dei Greci, da “a mazos”, che significa “senza seno”. Secondo la loro leggenda, una delle nostre mammelle veniva amputata perché non impedisse il maneggio dell’arco. Secondo il loro immaginario, solo una donna privata della propria femminilità poteva diventare Amazzone. Secondo l’ethos di un eroe greco, sarebbe stato improponibile e poco onorevole il consapevole scontro armato con una donna. In realtà la parola Amazzone deriva dalla nostra lingua, da “ha-mazan”, che vuol dire “guerriero”.Sul fregio del Partenone di Atene si vede Achille che sconfigge Pentesilea, la Regina delle Amazzoni, davanti alla città di Troia. Si racconta che Achille ne scoprisse la bellezza solo quando, colpitala a morte, le cadde l’elmo e furono così svelati i bei tratti del volto. Ignorava, Achille, che dietro quella femminilità prorompente, quell’incanto che il suo popolo non accettava in una guerriera e che quindi cercava di negare, di nascondere, si celavano invece anni e anni consacrati alla guerra, all’addestramento, allo stesso rigore che regola la vita di un soldato. Ignorava, Achille, che femminilità e disciplina, femminilità e responsabilità, femminilità e rabbia non si annullano l’uno con l’altro.

Le Amazzoni non sono mai morte. Il loro spirito ha attraversato nel tempo le anime delle Erinni e delle Gorgoni. Il loro grido di battaglia, capace di paralizzare i nemici, è risuonato nella bocca dell’argiva Telesilla che guidò le concittadine contro gli invasori spartani, e della celtica Budicca che vinse i Romani, e di Zenobia regina di Palmira, e di Camilla di cui si parla nell’Eneide, e di Giovanna d’Arco, e di Clorinda della Gerusalemme Liberata. Il loro coraggio, che non ha di certo scalfito la loro capacità seduttiva, ha viaggiato nel tempo fino a raggiungere il cuore delle streghe del Medioevo, delle partigiane, delle soldatesse curde…Lo spirito delle Amazzoni soffia ancora. C’è. C’è sempre stato.

Lo so, perché io sono la loro Regina.

Io sono Pentesilea.

©RitaLopez

(Pubblicato sul Blog di Beppe Lopez l’8 gennaio 2020).

Gli odori di Natale

Mi piace la mia cucina di Roma. Ha il soffitto con le travi di legno scuro. Grossi muri di pietra che trattengono il calore d’inverno e il fresco d’estate. C’è un camino con la bocca enorme che quando le fiamme si sollevano alte e la legna crepita, sembra di stare all’interno di un’antica fornace. Mi piace cuocere il cibo, là dentro. Mi sono fatta costruire un treppiedi di ferro dove poggiare gli enormi pentoloni scuri in cui faccio ribollire il sugo per ore. Mi metto seduta là davanti a mescolare e rimescolare con un lungo mestolo, come una strega con una pozione magica in un paiolo. La roba cotta sul fuoco ha un sapore pazzesco. Col tempo ho imparato ad accenderlo da sola, il fuoco. Non lo sapevo fare, prima. D’altronde ho imparato un sacco di cose nuove. Ho sposato un uomo di montagna che mi ha insegnato quali sono i tronchi migliori da raccogliere, come spaccare un ramo con l’accetta, come sistemare la legna all’interno del camino in modo da non riempire la stanza di fumo. Ho imparato che la quercia è eccezionale nel rilasciare calore. Produce una brace che dura a lungo ed emana un odore di muschio e sottobosco. Il castagno invece scoppietta terribilmente e bisogna starci attenti, perché qualche scintilla può arrivare a bruciare un cuscino, un tappeto, un divano. Non avevo mai avuto un camino in vita mia. A Bari non avevamo camini. A Bari c’era la vecchia cucina a gas di mamma, quella a quattro fornelli, di cui uno, tra l’altro, neanche funzionava. Il forno non si chiudeva per bene e bisognava infilare uno spessore di cartone nello sportello, per tenerlo fermo. Eppure mamma su quella cucina preparava il cenone della Vigilia, e il pranzo di Natale, e quello di Santo Stefano, per una ventina di persone. Andavamo a fare la spesa al mercato di via Nicolai, che restava aperto anche di notte. Le bancarelle erano illuminate a festa. Tornavamo a casa con le buste della spesa stracolme. Mamma cucinava dalla mattina alla sera su quella vecchia e sgangherata cucina a gas. Cucinava e cantava. Teneva le finestre aperte per non riempire la stanza di fumo. Anche se non avevamo i termosifoni, ricordo che in quella cucina, in quella casa, io non avevo mai freddo.È strano, ma se chiudo gli occhi e ripenso ai Natali del mio passato, sono gli odori che mi assalgono più di ogni altra cosa. Odore di capitone cotto allo spiedo insieme alle foglie di alloro. Odore di pesce fresco e olive in salamoia. Di sugo con la carne d’agnello. Di torrone alle mandorle. Di lampascioni fritti. E i ricordi olfattivi si estendono non solo a quelli legati al cibo, ma anche ad altri tipi di odori, come l’odore dell’abete che compravamo a piazza Risorgimento, del muschio del presepe, delle bucce di mandarino che spezzettavamo per giocare a tombola. L’odore acre dei botti che si sparavano nel Libertà, alla disperata, come se non ci fosse un domani.L’altro giorno ho fatto le cartellate a casa mia, a Roma. Ero da sola e come capita spesso quando intuisco che la nostalgia sta per prendermi allo stomaco, mi sono messa a cucinare. Ho impastato, ho tagliato le striscioline di pasta con la rotella dentata, le ho avvolte su se stesse così da formare dei cestini, come mi aveva insegnato nonna. Quando ho ripassato le cartellate nel vin cotto bollente, quell’odore così tipico, così inconfondibile, così nostro, ha riempito la mia cucina e, insomma, non sono riuscita a trattenere le lacrime.È il mio primo Natale lontano da Bari. Il mio primo Natale senza più mia madre. Il mio primo Natale senza gli odori che conosco da una vita e che mi facevano sentire che era di nuovo festa. Che ero di nuovo a casa. A volte mi guardo attorno e mi chiedo fino a quando sarò capace di sostenere ancora a lungo questa situazione così surreale. Fino a quando sarò capace di gioire ancora per quelle cose per cui un tempo gioivo così facilmente e che comunque erano cose semplici. Cose da nulla, come sono gli odori. Eppure so che devo accettare i miei vuoti. I miei silenzi. Le mie paure. So che devo accogliere la mia fragilità e sfruttarla per riuscire ad accrescere una sensibilità che sia sempre più attenta. Sempre più accogliente. In questo percorso che sto attraversando, che tutti noi stiamo attraversando, il buio e la luce vanno affrontati con la stessa intensità.La prima cosa che feci quando trovai lavoro ed ebbi il mio primo stipendio, fu quella di comprare una cucina nuova per mamma. Una cucina nuova di zecca, con sei fornelli e il forno ventilato. Eppure… eppure quegli odori che venivano fuori dalle pietanze che preparava per i nostri pranzi psichedelici della Vigilia, e di Natale, quegli odori che ti tramortivano la testa e ti riempivano il cuore, io non li ho sentiti mai più.

©RitaLopez

(Il mio pezzo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno del 29 dicembre 2020).

La dea Strenna e i regali di Natale

C’era una dea, antichissima, che si chiamava Strenna. Una dea così antica da risalire al tempo dei Sabini, ancor prima che a quello dei Romani. Alcuni dicono che il suo nome derivi infatti dalla parola di origine sabina “strena”, che vuol dire “regalo”. Quando tantissimo tempo dopo fu fondata Roma, la leggenda dice che i cittadini raccolsero un fascio di rami tagliati dal bosco sacro dedicato a Strenna e lo offrirono a Romolo. Da allora rimase l’usanza di regalarsi a vicenda, durante le festività del nuovo anno, rami sacri di alloro e ulivo, insieme a fichi e mele, con l’augurio che il nuovo anno potesse essere dolce come quei frutti. Una processione partiva dal santuario della dea Strenna e risaliva lungo la via Sacra, fino alla Rupe Tarpea. Durante la festa ai bambini venivano regalati dolci di marzapane a forma di pupazzo, che molto probabilmente raffigurava la dea con più seni, simbolo di prosperità. Ancora oggi in molti paesi dei Castelli Romani si usa cuocere dolci a forma di donna con tre seni, immagine arcaica della dea Madre dalle molte mammelle. Statuette della dea, di colore bianco, si donavano in occasione delle nascite. Nere, in occasione delle morti. Forse da qui deriva l’usanza della Befana di portare lo zucchero, bianco, ai bambini buoni e il carbone, nero, a quelli cattivi. La dea Strenna avrebbe garantito la ricchezza, la salute, la potenza (da cui “strenuo”, cioè “forte”). Era la dea che legava la fine di un ciclo con l’inizio di uno nuovo. La dea che dava la vita e poi però se la riprendeva. La dea che “strinava” i campi, perché solo bruciando la terra e le sterpaglie, nel freddo dell’inverno, si garantiva la rinascita e la vita futura. Questa meravigliosa figura femminile fu trasformata in Strega dalle istituzioni della Chiesa di Roma, sfruttando anche l’assonanza con la parola greca “strix” (στρίξ, che vuol dire “barbagianni”). Condannata a essere raffigurata, nei secoli a venire, come una vecchia gobba e col naso adunco. Ma la meravigliosa dea Strenna, in qualche modo, ancora rivive nelle feste della Befana di alcuni paesi siciliani, quando orde di ragazzini “i figghi dâ Strina”, girano per i vicoli e bussano alle case reclamando dolci, frutta secca, denaro. La prosperosa dea Strenna ancora rivive in alcune tradizioni calabresi, quando gli “Strinari” intonano “la strina”, un canto natalizio che augura un felice anno nuovo a tutti i componenti della famiglia. Quando sentiamo parlare di “strenna natalizia” ricordiamoci che è dal culto della dea Strenna, antica e pagana, che tutto ebbe origine.

(Il mio pezzo pubblicato nel Blog di Beppe Lopez il 9 dicembre 2020).

La speranza dentro un abbraccio

Quella notte non aveva chiuso occhio. A dire il vero ultimamente le capitava spesso di svegliarsi prima ancora dell’alba e di non riuscire più a dormire. Ma quella notte la passò sdraiata sul letto, senza neanche infilarsi sotto le coperte, a guardare il soffitto. Maria voleva farla finita. Era stanca. Spossata. Non era rimasto un solo motivo al mondo per andare avanti e il mondo intero non si sarebbe neanche accorto della sua assenza. Doveva solo trovare il coraggio. Perché ci vuole coraggio per morire. Non è forse così? La gente parla di debolezza. Di mal di vivere. Non sa, la gente, la forza che richiede il rifiuto della vita. Non è forse così? Deve essere così.Una perdente: ecco cos’era. Il fallimento era stata la costante della sua vita. Aveva fallito come figlia. Aveva fallito come moglie. Aveva fallito come madre. Ecco! Era arrivata a una decisione. L’unica decisione possibile: non voleva più vivere come una perdente. Maria si attaccò a quest’unica certezza come fa un naufrago con un relitto. Cosa le era rimasto, adesso, a cinquant’anni passati, di tutti quegli anni vissuti? Nient’altro che un letto vuoto, freddo, troppo grande per riscaldarla. Nient’altro che una casa silenziosa, in cui l’assenza di rumori, l’assenza di voci, la facevano sprofondare in una quiete surreale. Nient’altro che l’angoscia di ritrovarsi ogni giorno, ancora, irrimediabilmente, davanti a un altro giorno. Un anonimo, scialbo, ennesimo giorno di una vita che ormai aveva perso ogni sua attrattiva. Una vita diventata impossibile da vivere, da sopportare. Una non-vita insomma.Avvertì un brivido di freddo. Si accorse che aveva lasciato la finestra aperta. Si alzò dal letto e andò a chiuderla. Stava albeggiando. Il cielo era limpido e si preannunciava una giornata di sole. Maria si vide riflessa sul vetro della finestra. “Non ce la fai” pensò. “Sei talmente mediocre che non ce la fai”. Provò disgusto per la sua faccia. E un rigurgito di rabbia per la sua debolezza. “Invece sì” disse ad alta voce, sfidandosi, disprezzandosi, odiandosi. Uscì dalla stanza da letto e spalancò la porta di casa. Salì i gradini delle scale senza fare il minimo rumore. Non aveva messo le scarpe. Aveva solo i calzini scuri di cotone. Raggiunse il sottotetto condominiale. Puzzava di muffa e pane rancido. La vecchia porta di legno cigolò, quando l’aprì. Salì senza difficoltà sul tetto, camminando piano sulle tegole rosse. Seguì la leggera pendenza, poggiando un piede dietro l’altro, come un automa, senza pensare a nulla. La testa inconsistente come un tappo di sughero. Non si accorse nemmeno dell’allodola che la stava osservando, posata proprio sulla cima della canna fumaria. Non si accorse nemmeno che si era alzato il sole. Il signor Moretti, che abitava di fronte, era uscito dal portone di casa, come ogni mattina, per andare a lavorare. Vide Maria con i suoi capelli rosso fuoco, dritta come un soldato, pericolosamente vicina al bordo del tetto. Ebbe un sussulto. Rientrò di corsa risalendo i gradini due per volta e si attaccò al telefono. Maria non seppe mai per quanto tempo rimase così, in bilico, immobile, sulle tegole inclinate del tetto. Forse per qualche minuto. Forse per un tempo interminabile. Non seppe mai se gli occhi le si erano inumiditi per la frescura pungente del mattino o per un improvviso senso di pietà verso se stessa. Fissava la strada di sotto. Tra poco sarebbe tutto finito. Non si accorse neanche del carabiniere che era sgusciato silenzioso sul tetto, alle sue spalle. Dei suoi passi felpati. Del martellare impazzito del suo cuore: tu-tum, tu-tum, tu-tum. Si sentì soltanto avvolgere all’improvviso da due braccia forti. Sobbalzò per lo spavento, ma non urlò. Fu come svegliarsi di colpo. Si accorse che per strada era ferma una volante e c’era un gruppo di persone a testa in su. Erano lì per lei. E poi quelle braccia. Quelle braccia che continuavano a stringerla con forza, con tenacia, ma non con cattiveria. Anzi, tutt’altro. Erano braccia accoglienti, confortevoli. Braccia in cui lasciarsi cullare per sempre. L’uomo, in effetti, la strinse ancora di più a sé e prese a cullarla, come si fa con un bambino piccolo. Poi si abbassò piano sul tetto, facendola sedere accanto. Maria lo guardò. L’uomo aveva gli occhi scuri e il volto semicoperto dalla mascherina. Già, la mascherina. La pandemia. Già. Le precauzioni. Il distanziamento sociale. Eppure quell’uomo in divisa non smetteva di abbracciarla e di accarezzarle la schiena. Maria posò la testa sul suo petto, chiuse gli occhi e pianse. Si rannicchiò sul suo corpo. Aveva le gambe e le braccia infreddolite, ma il calore delle lacrime sulla faccia e delle braccia dell’uomo che la stringevano, la riscaldò fin dentro le ossa. Le sciolse il petto dal nodo aggrovigliato e convulso dei singhiozzi. In quell’abbraccio ritrovò tutti gli abbracci ricevuti e tutti gli abbracci dati. Quelli solo immaginati. Quelli desiderati e mai accaduti. Quelli ancora da dare, distanti anni luce. Quelli di quando era stata figlia. Di quando era stata moglie. Di quando era stata madre. Quanto silenzio c’è in un abbraccio! E quanto si riesce a dire con un abbraccio!L’uomo si alzò. Le porse la mano e l’aiutò a sollevarsi. Il capannello di persone che si era radunato per strada, alla spicciolata, si disperse. L’allodola, quando tutto si fu calmato, tornò a posarsi sulla cima della canna fumaria.(Il mio racconto pubblicato nella Gazzetta del Mezzogiorno del 1 novembre 2020, liberamente ispirato da un episodio di cronaca accaduto il 21 ottobre a Mentana).

IL RIFUGIO SOTTO LA SCUOLA

“Mio padre era in guerra e così io dormivo nel letto grande, con mamma”.
“Tu e nonna dormivate insieme?”.
Mi siedo anch’io al tavolo di formica della cucina, dove mia madre sta sfogliano un album di vecchie fotografie. È uno di qui raccoglitori in pelle, con le linguette trasparenti in cui inserire le foto e un foglio leggerissimo di carta velina che separa una pagina dall’altra.
“Sì, dormivamo insieme e mi ricordo che mamma odorava di lavanda”.
Le fotografie sono di un formato molto piccolo, con il contorno zigrinato, tutte in bianco e nero. Mia madre da bambina. I miei nonni giovani. I miei parenti. Tutti sorridono in quelle foto. Si abbracciano. Si tengono per mano. Forse per presentarsi nel modo migliore al cospetto della vita, anche se i tempi erano duri. Perché anche se i tempi erano duri, c’era questa grande e tangibile certezza che era la famiglia. Una famiglia chiassosa e rumorosa, intrusiva e onnipresente, ma pronta all’abbraccio, alla difesa strenua di ciascuno dei suoi membri. Ai miei occhi quel bianco e nero si palesa come una sorta di garanzia, l’assicurazione di un sostegno contro le turbolenza della vita, una confortante sensazione di protezione che nessuna foto a colori sarebbe mai capace di trasmettermi.
“La camera da letto era in mezzo ad altre due stanze e non aveva finestre. Però c’era il tabernacolo della Madonna alla parete e le lucine restavano accese tutta la notte. Mia madre mi raccontava storie di fate e di maghi per farmi addormentare. Io l’ascoltavo con la mano appoggiata sul suo petto. Mamma si addormentava prima di me e io guardavo la sua faccia da vicino. La mia mano saliva e scendeva insieme a lei, mentre respirava”.
Mi soffermo a guardare una fotografia ingiallita e leggermente sfocata. Mia nonna, giovanissima e magrissima, tiene in braccio mia madre che avrebbe potuto avere due, massimo tre anni. Sono all’aperto, in una giornata assolata e ventosa. Le loro teste vicine. Guancia attaccata a guancia. I capelli di entrambe, lucidi e sottili, sono scompigliati dal vento. Il sorriso di nonna è quello di una ragazza felice e appagata, nonostante la guerra, nonostante le bombe, nonostante la fame, quasi a dimostrare che tutto il bene del mondo, tutta la ricchezza della terra, è lì tra le sue braccia.
“A volte, nel cuore della notte, venivamo svegliate dal suono delle sirene che davano l’allarme. Io strizzavo gli occhi, non volevo svegliarmi e invece mia madre saltava fuori dal letto. Aveva una borsa, sempre pronta, sul comò di legno scuro. Dentro ci teneva del pane, una bottiglia d’acqua, un po’ di zucchero…”.
Volta una pagina dell’album facendo attenzione a non piegare la carta velina, lisciandola bene con la mano. Guarda le foto una per una, come se le vedesse per la prima volta.
“E poi?” chiedo. “Che faceva nonna?”.
“Afferrava la borsa sul comò e mi prendeva in braccio. Io piangevo, le davo i calci sulla pancia, ma lei mi stringeva ancora di più. Usciva di casa e correva per le scale, bussando a ogni porta per assicurarsi che anche i vicini avessero sentito l’allarme e fossero usciti. Per strada c’erano tante persone che correvano, soprattutto donne e bambini. E anche vecchi, che erano più lenti. Andavano tutti verso il rifugio” .
“Dove? Dove era il rifugio?” chiedo.
“Era sotto la scuola elementare. La tua scuola”.
“Cosa? C’è un rifugio antiaereo sotto il San Giovanni Bosco? Stai scherzando?”. Non posso crederci.
“Non sto scherzando. C’è. Era lì sotto. Il rifugio era indicato da un erre maiuscola, a stampatello, disegnata su un muro, per strada”.
Sono esterrefatta. Mai avrei immaginato che sotto la mia scuola si celasse un posto del genere.
“E dimmi” incalzo “cosa facevate là sotto?”.
“Era una ambiente grande e molto scuro, illuminato solo da un paio di lampadine appese al soffitto. C’erano delle brande, qua e là, con delle coperte vecchie. E delle sedie. Qualcuna rotta. Mi ricordo tante persone. Tanti bambini. Alcuni dormivano sulle brande. Altri restavano in braccio alle loro madri, come me. Le donne anziane recitavano il rosario. Spesso andava via la luce e allora qualcuno gridava, spaventato. Qualcun altro accendeva una candela. Faceva freddo“.
“E nonna? Anche nonna gridava?”.
“No. Tua nonna mi cullava e mi cantava qualcosa”.
Mi sembra che, mentre racconta, anche lei si culli leggermente. Ma forse è solo una mia impressione.
“Io non riuscivo a chiudere occhio. Guardavo tutte quelle persone attorno a me. Allora mi ricordo che mamma prendeva un pezzetto di pane dalla borsa che aveva portato da casa, ci metteva lo zucchero sopra e me lo dava, per farmi stare buona”.
Dunque era là, sotto la scuola che frequentavo da bambina. Era là sotto che la gente del mio quartiere correva a nascondersi durante i bombardamenti. Era là sotto che mia nonna e mia madre aspettavano che l’inferno passasse. Insieme a decine e decine di altre donne. E vecchi. E bambini. Era là sotto che mia madre chiudeva gli occhi ad ogni tonfo disumano delle bombe. Che tremava. Che piangeva. Che nascondeva la faccia sul petto caldo di nonna.
Provo la stessa emozione che mi capita di provare scavando al Palatino. La stessa trepidazione di quando un giorno, sotto uno spesso strato di limo sabbioso, si riuscì a intravedere la superficie porosa di un’anfora. La stessa travolgente commozione di quando ci si rese conto che nell’anfora era custodito lo scheletro di un infante di pochi anni. Era lì, quel bambino, o quella bambina, miracolosamente tornato alla luce accecante del sole, dopo secoli di buio. Per un tempo interminabile la Madre Terra lo aveva cullato e accarezzato, come faceva nonna con mamma nel rifugio antiaereo sotto la scuola elementare, mentre in cielo tuonavano le bombe.
Allo stesso modo, in un pomeriggio di questa estate afosa e devastante, vedo riemergere la bambina nel rifugio sotto la scuola. Mangia il suo pezzetto di pane intriso nello zucchero, accoccolata tra le braccia di sua madre. La bambina è qui, insieme a mia madre che ricorda, insieme a me che l’ascolto, insieme a mia nonna che la culla, insieme a tutti i volti pallidi e smunti della donne del Libertà che sussultano e si tappano le orecchie a ogni boato che esplode sopra le loro teste.
©RitaLopez
(pubblicato nella Gazzetta del Mezzogiorno del 26 agosto 2020).

Le vite di Teresa

«Perché proprio io?» protestai piagnucolando.
La prima volta che i miei genitori mi obbligarono ad accompagnare zia Teresa al teatro Petruzzelli, a vedere l’opera, avevo otto anni.
Zia Teresa era una delle sorelle di nonna. L’unica a non essersi sposata.
«Non ti dispiace non avere una famiglia tua?» le chiedevamo a volte noi bambini.
«La nonna è la mia famiglia» rispondeva zia Teresa, scrutandoci sopra le lenti spesse dei suoi occhiali, dalla pesante montatura nera.
Era così che aveva sempre vissuto zia Teresa, fin da quando era ragazza. Giorno dopo giorno. Incondizionatamente mite e servizievole nei confronti della vecchia madre. Giorno dopo giorno. Senza mai osare un rigurgito di impazienza o di nervosismo. Giorno dopo giorno. Senza mai rivendicare la possibilità di una vita diversa. Fino a veder sfiorire la propria giovinezza. Un giorno dopo l’altro. Un giorno identico all’atro.
Una domenica al mese però, quando si apriva la stagione operistica, zia Teresa andava a vedere l’opera al teatro Petruzzelli, con Lina, la vedova del calzolaio. Aveva una passione sviscerata per l’opera. Non solo conosceva i testi delle arie più famose, ma ricordava a memoria anche i recitativi, e quando ci raccontava le trame ingarbugliate, gli amori disperati, i tradimenti, i colpi di scena, gli occhi le brillavano dietro le spesse lenti degli occhiali.
Conservava, nella credenza, delle vecchie scatole di latta per biscotti, ancora odorose di zenzero e cannella. Su ognuna vi aveva apposto un’etichetta. Spesa. Bollette. Medicine. Regalo nipoti. Varie. E poi ce n’era una dove era scritto: Petruzzelli.
Quando anche Lina, la vedova, morì, per un po’ zia Teresa non andò più a vedere l’opera.
«Addummànn a qualche nipòt, ca vene cu tè!». Chiedi a qualche nipote se ti fa compagnia, le propose un giorno la mia bisnonna, mentre Teresa, pensierosa, le intrecciava i lunghissimi capelli argentati.
Ma i miei cugini si defilarono tutti e così, dopo un frettoloso consulto tra i parenti, la scelta, molto “democraticamente”, ricadde su di me.
«Ma perché proprio io?», chiesi per la seconda volta, esasperando il tono lamentoso, mentre mamma mi tirava su la cerniera del vestito buono.
«E non ti dispiace per zia Teresa? Guarda che l’opera è bella!» mi disse aprendo la porta di casa, per farmi uscire.
Arrivai da zia Teresa che era già pronta.
«Sì cuntent ca va’ a u tiàtr?» mi chiese la mia bisnonna, accarezzandomi i capelli.
«Sì» mentii.
Camminavamo per strada, io e zia Teresa, mano nella mano. Lei avvolta nel suo collo di pelliccia di volpe, felice come una bambina. Io con la stessa baldanza di un condannato a morte diretto al patibolo.
In fondo a via Putignani, il Petruzzelli ci aspettava. Rosso. Fiammante.
***
Mi innamorai a prima vista del Petruzzelli. Dalla nostra postazione, sulla gradinata di V ordine centrale, subito sotto il loggione, potevo ammirare l’enormità di quel contenitore sfavillante, acceso dai rossi delle tappezzerie e dagli ori abbaglianti che ricoprivano gli stucchi. Sul sipario, che ancora celava il palco, era riprodotta la liberazione di Bari dai Saraceni ad opera dei potenti Veneziani, nel lontano 1002. Sollevai la testa. Anche la cupola era dipinta. C’era un matador che sventolava un grande drappo, rosso sangue, davanti agli occhi di un possente toro infuriato. Aquile e scudi ingentilivano la potenza della volta, insieme alle immagini di Omero, Eschilo, Plauto, Terenzio. Non avevo mai visto niente del genere. All’improvviso piombò il silenzio più totale. A un gesto magico e perentorio del direttore d’orchestra, la musica riempì il teatro, e anche il mio stomaco, e i miei polmoni, e la mia testa, con un boato vibrante, un’ondata travolgente da cui non potevi, anzi non volevi, non lasciarti trascinare. Era La Norma. E fu quella sera che successe. Mi ero voltata un attimo a guardare zia Teresa e quello che vidi mi lasciò interdetta. Il suo volto, pur nella penombra soffusa del teatro, mi parve completamente rapito, in estasi quasi. Teneva gli occhi socchiusi, completamente risucchiata dalla scena. Le labbra stavano pronunciando le stesse parole di Norma, là sul palco. Non riuscivo a levarle gli occhi di dosso. Ero testimone di una sorta di miracolo estetico, un incredibile gioco illusionistico tra reale e irreale. Zia Teresa non era più accanto a me. Era sul palco. Cantava insieme a Norma. Era nel luogo di Norma, nello spazio di Norma, nel tempo di Norma. Era Norma. Zia Teresa era Norma! A partire da quel momento non riuscii più a scollare la figura della protagonista sul palcoscenico, con quella della donna che odorava di naftalina, che mi sedeva accanto. Guardavo zia Teresa e la vedevo catapultata nella vita di un’altra, di una sacerdotessa druida. Era carne della sua carne. Pelle della sua pelle. Tra lo stupore mio e la costernazione generale, Norma, che era Teresa, o Teresa stessa, trasfigurata in Norma, diede l’ordine di erigere il rogo su cui si sarebbe immolata. Solo le ripetute gomitate nel fianco di zia Teresa mi scossero dal mio stato di trance e mi riportarono alla realtà. La scrutai bene in volto, stupita, frastornata. Era ritornata. Zia Teresa era di nuovo accanto a me. «Andiamo?», mi chiese.
Tornammo a casa. Io con i piedi che mi facevano male nelle strette scarpe di vernice nera.
Zia Teresa avvolta nel suo cappotto che odorava di naftalina, verso la sua vita di sempre.
Ebbi la fortuna di sbirciare tra le molte vite vissute da Teresa. Accadeva sempre. All’interno del Petruzzelli la magia si ripresentava ed io potevo spiarla, allibita, col fiato sospeso. Solo per la durata dello spettacolo. Solo per un’occhiata, una rapida occhiata, ma da capogiro. Da brivido.
Teresa era Tosca, dal grande temperamento, pronta a tutto, drammaticamente risoluta, che per la sua passione è pronta al suicidio, lanciandosi dal parapetto del ponte di Castel Sant’Angelo. Teresa era Violetta, malata di tisi e di solitudine, costretta a sacrificare il suo sogno d’amore per la malattia e per la morale sociale gretta e ipocrita. Teresa era Madama Butterfly che, da fanciulla fragile, devota, innamorata, evolve e trasfigura in una figura femminile monumentale, irremovibile nella sua naturale vocazione a donare amore a quell’uomo che pure l’aveva rinnegata e la vita al proprio bambino. Teresa era l’affascinante e focosa Carmen, che fuma il sigaro e poi lo getta via, così come fa con gli uomini. Era Aida, sepolta viva insieme a Radamès. Era Gilda, era Manon Lescaut, era Mimì. Teresa e le sue innumerevoli vite avrebbero potuto sopportare qualsiasi rinuncia, qualsiasi sacrificio. Questo, ormai, mi era ben chiaro. La fissavo intenta a pettinare i lunghi capelli argentati della mia bisnonna. Si accorgeva di me. Mi sorrideva.
***
Molti anni dopo ero nella mia casa di Roma. Vidi le immagini al telegiornale. Nella notte precedente il Petruzzelli aveva subito un incendio spaventoso. Ciò che avevo davanti agli occhi, mi lasciò senza fiato. La cupola era demolita, crollata. Da quello che sembrava il cratere di un vulcano in eruzione, fuoriuscivano, con tremenda violenza, fiamme selvagge, alte, abbacinanti. Le strade tutt’intorno erano coperte di fumo spesso e bianco. Le sirene dei pompieri urlavano come impazzite. Il teatro fu completamento distrutto da un rogo immenso. Era l’inferno. Un incubo. Non c’era più niente. Niente era rimasto dei dipinti di Raffaele Armenise sul sipario e sulla volta. Niente era rimasto della platea e dei palchi, delle rosse tappezzerie e degli stucchi dorati. Attorno al teatro scoperchiato si era radunata una folla allibita, disperata, piangente. Il Petruzzelli non c’era più. Di quel teatro glorioso, rimanevano soltanto macerie. Poche ore prima era stata messa in scena la Norma, di Vincenzo Bellini. La prima opera della mia vita. La mia prima volta al Petruzzelli, insieme a zia Teresa. La Norma, che finisce con un rogo. Il teatro, esso stesso, trasformato in un rogo.
Avevo il volto rigato dalle lacrime. Ero lì di fronte alla schermo, ferita da un dolore indicibile. Ripensavo a me, bambina, che assistevo agli spettacoli dalla mia postazione sulla gr dinata di V ordine centrale. Al cappotto che odorava di naftalina. Al toro infuriato dipinto sulla cupola. Alla liberazione di Bari dai Saraceni. Alla magia cui mi era stato concesso di assistere durante le rappresentazioni. Alle trasfigurazioni puntuali di zia Teresa e alle sue molteplici vite nascoste. Mi assalì un’enorme tristezza a immaginarla nella sua casa, giù a Bari, tutta sola, dopo la morte della mia bisnonna, mentre costernata guardava anche lei quelle stesse immagini trasmesse dalla televisione.
Il 27 ottobre 1991 tutte le vite di zia Teresa ebbero fine. Contemporaneamente. Morirono Norma e Tosca, Mimì e Madam Lescaut. Morirono Carmen, Gilda e Aida. Tutte morirono, e lasciarono zia Teresa, ancora per molti anni, costretta a vivere da sola con se stessa.

©RitaLopez

(estratto da “Vie d’uscita. Salvarsi con i Led Zeppelin, Bach e Nilla Pizzi”, ed. Florestano).

Pubblicato nella Gazzetta del Mezzogiorno del 14 maggio 2020

ROMA NACQUE IN UN GIORNO DI FESTA E DI SANGUE

Quella giornata era iniziata con un presagio favorevole. Aveva vinto la contesa augurale con suo fratello e adesso, scagliata un’asta di corniolo verso il colle Palatino, questa era penetrata con un tonfo secco nella terra e si era immediatamente trasformata in albero. Era il 21 aprile, giorno ideale per la fondazione della nuova città, perché era il giorno in cui i pastori festeggiavano la dea Pales, l’antica divinità del Palatino. La dea della pastorizia. Parilia si chiamava la festa. Da parĕre, che vuol dire partorire. Aprile è infatti il mese in cui le capre partoriscono i capretti.
Celebrò la festa davanti al Lupercale, la grotta in cui lui e suo fratello erano stati allevati da bambini. Furono accesi dei fuochi su cui gli uomini saltavano per purificarsi e per propiziare la nascita dei capretti.
Sì. Era davvero un bel giorno quello. Un giorno di sole caldo e di cielo azzurro intenso.
Chiamò a raccolta tutti i rappresentanti dei vari villaggi sparpagliati sui colli. Davanti a loro scavò quindi una fossa circolare e vi depose all’interno le primizie del raccolto. Quindi invitò ciascuno di loro a coprire la fossa. Uno alla volta gli uomini si avvicinarono e gettarono un pugno di terra proveniente dal proprio paese natale, in modo che le terre si confondessero e si mescolassero in un unico corpo. Senza distinzione. Quando la fossa fu completamente coperta, vi innalzò sopra un altare. Accese un grande fuoco e pronunciò i nomi di Roma. Il nome noto di Roma e i nomi segreti di Roma. Quelli che nessun nemico doveva conoscere. Così che nessun nemico potesse essere in grado di maledire.
Indossò quindi una tunica cinta in vita, con un lembo che gli copriva la testa, secondo l’antico rituale etrusco. Fissò all’aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un bue e una vacca, entrambi bianchi, e li guidò lui stesso in senso antiorario, tracciando un profondo solco lungo il perimetro stabilito, per disegnare i confini della città.
Dietro di lui gli uomini gettavano nello scavo delle pietre, perché la pioggia non potesse cancellarlo. Lungo quel solco sarebbero infatti sorte le mura. Ogni tanto sollevava l’aratro, lì dove ci sarebbero state le porte della città. Quello rappresentava il perimetro sacro e inviolabile, il limite che non poteva essere valicato in armi e la cui profanazione sarebbe stata punita.
Ma improvvisamente qualcuno, un ragazzo, in segno di sfida, oltrepassò il solco. Gli si gelò il sangue nelle vene. Era suo fratello. Lasciare impunito quel salto, quell’offesa, avrebbe significato permettere che le mura diventassero attraversabili da chiunque. Lo uccise. La sua morte era la prova che le mura erano sanctae e nessuno, nessuno avrebbe potuto violarle impunemente. Neanche il fratello del re. E mentre il sangue ancora caldo penetrava nella terra smossa, ritornò all’aratro con un’ombra che gli era scesa nel cuore e continuò a tracciare il perimetro della città.
Roma nacque in un giorno di festa, con la benedizione degli dei e un dolore profondo nel petto di uomo. Fu fondata secondo una sacralità che non poteva essere violata. Da niente e da nessuno.
Roma nacque dalla mescolanza di terre diverse, come punto da cui ricominciare.
Dall’orgoglio delle proprie diverse origini e culture, come ricchezza da cui partire.
Per affermare la concordia al di sopra delle discordie.
Per garantire la diversità senza, per questo, diventare nemici.
©RitaLopez
(nella foto: Annibale Carracci, Romolo traccia con l’aratro il confine della città di Roma, 1590, Bologna, palazzo Magnani)

COM’È UN ABBRACCIO?


È seduta molto composta di fronte a me, a circa due metri di distanza. Io su una poltrona imbottita. Lei su una seggiolina di plastica rossa. Stringe una grossa bambola tra le mani. Una bambola che ha i suoi stessi occhi azzurri.
“Allora?” mi chiede.
Mi ricorda vagamente le mie figlie, da piccole, che mi tempestavano di domande in quegli irripetibili pomeriggi, d’inverno, quando eravamo sedute davanti al camino acceso.
“Allora cosa?”.
“Davvero quando eri piccola andavi ogni mattina in un posto speciale pieno di bambini come te?”.
“Certo che è vero”, le rispondo. “Era un edificio bellissimo, con grandi aule e grandi finestre. In ogni aula c’era una classe di almeno venti, venticinque bambini. E c’erano tanti piccoli tavoli, che si chiamavano banchi, e a ogni banco eravamo seduti in due. La maestra era lì con noi e ci faceva lezione alla lavagna. Una lavagna vera. Grande. Nera. Con i gessetti colorati e il cassino”.
“Cassino?”.
“Sì, un rotolo di stoffa. Si usava per cancellare”.
Inforco a fatica gli occhiali, per via di questo leggero tremore alle mani che mi affligge da un po’ di anni. C’è qualcosa di familiare in quegli occhioni sbalorditi, eppure non ricordo proprio chi sia questa bambina. Anche la mia memoria non è più quella di un tempo. Vacilla, come le mie gambe, attraverso tutti questi anni di vita che ho alle spalle. Traballa sulle onde del tempo lunghissimo che ho vissuto, come una barchetta che fa fatica a schivare i cavalloni e a non affondare.
“E davvero giocavate insieme, da piccoli?”.
Ho l’impressione di averle raccontato un sacco di volte le stesse cose, ma che lei voglia sentirsele ripetere ancora. E ancora.
“Sì, giocavamo sempre insieme. Nel vicolo dietro casa. All’oratorio del quartiere. Nel cortile della scuola. A palla prigioniera. A nascondino. A mosca cieca…”.
“E il pomeriggio andavate in una grande sala buia a vedere un film…”.
“Sì, andavamo al cinema. A volte a teatro. E quando ero più grande anche negli stadi, ai concerti. Immagina! Una folla di ragazzi e ragazze, grande come il mare, che canta e salta attorno a un palco”.
“Tutti stretti? Così?”. Stringe la sua bambola tra le braccia.
“Tutti stretti. Così”.
“E come era, stare stretti stretti con altre persone?”.
Mi piace questa bambina che mi pare di conoscere. Mi fa tenerezza.
“Dipende” le dico sorridendo.
“A volte era esasperante. In estate per esempio, in metropolitana. C’era talmente tanta gente che non riuscivi neppure ad alzare un braccio per grattarti il naso”. Ride divertita.
“A volte invece era bellissimo. Come quando passavamo la notte nei sacchi a pelo sulla spiaggia, con gli amici, appena arrivava l’estate”.
“E vi abbracciavate?”.
“Ci abbracciavamo, sì”.
Ho un moto di commozione. Mi guardo le mani. Sono mani rugose, ricoperte da piccole vene azzurrine. Da quando, queste mie vecchie mani, non stringono le mani di qualcuno? Da quando non accarezzano un volto?
“E dimmi: come è un abbraccio?”, mi chiede la bambina.
Chiudo gli occhi. Affiorano nella mia mente gli abbracci amorevoli di nonna, in un tempo remotissimo, fatti di carne morbida in cui sprofondare. Quelli pudichi e frettolosi di mio padre, pieni di orgoglio. Gli abbracci degli amici veri, che ti strofinavano i palmi aperti delle mani sulla schiena, come a volerti riscaldare. Quelli appassionati del mio uomo, che erano il preludio all’amore. Le piccole braccia nude delle mie figlie, da bambine, avvinghiate strette attorno al mio collo, così intrusive da farmi il solletico.
“È… È come… È bellissimo” le dico.
Mi sveglio all’improvviso. Mi sveglio nel cuore della notte. Il petto che mi batte forte. Ho sognato di essere vecchissima. Era tutto un sogno. Anche la bambina che veniva dal futuro era solo un sogno. Il virus, invece, esiste ancora. È reale.
Non ho più chiuso occhio e alle prime luci dell’alba sono sgusciata fuori dal letto. Mi capita spesso ultimamente. Questa mattina il cielo era ricoperto da nubi leggere. Mentre mi preparavo il caffè, pensavo a quanto io sia istintivamente pochissimo “ascetica” ed estremamente “fisica” come persona. L’idea di un mondo senza abbracci, né baci, mi disorienta. Faccio fatica a mantenere la “distanza di sicurezza”. La realtà degli stadi vuoti, delle scuole chiuse, delle metropolitane silenziose, delle strade deserte, mi dà un senso di smarrimento.
Ma quello che questo bastardissimo nemico invisibile, così veloce, così intelligente, non sa, è che per gli esseri umani la paura, non sempre, ma a volte, può essere motivo di aggregazione. Che il dolore, non sempre, ma a volte, può renderci più forti. Che lo sconforto, il lutto, il pianto, non sempre, ma a volte, possono innescare una voglia irrefrenabile di speranza e grandi progetti. Usiamolo, allora, questo infame avversario. Approfittiamo di lui. Impariamo la lezione che questo microscopico figlio di puttana non sa neppure di darci.
Mi auguro che quando questo incubo finirà, perché deve finire, possiamo guardare con occhi diversi le Donne e gli Uomini di questa nostra Madre Terra che, contro “nemici” di ogni sorta, combattono ogni giorno.
Che quando questo incubo finirà, perché finirà, possiamo avere maggiore empatia per le Donne e gli Uomini che contro i giganti, e i mostri, quelli visibili e quelli invisibili, in ogni angolo di questo dannatissimo e amatissimo pianeta, devono fare quotidianamente i conti.
Che con la paura e con il terrore convivono ogni santissimo giorno.
Non vedo l’ora che questo incubo finisca.
Non vedo l’ora di abbracciare chiunque incontri per strada.
Di ritrovarmi in mezzo alla calca di un concerto.
E spero di incontrare di nuovo, nei miei sogni, la bambina del futuro. Devo farmi perdonare.
Avrei dovuto farle vedere, farle sentire come è un abbraccio, e invece non l’ho fatto.
Rita Lopez
(pubblicato nel Corriere del Mezzogiorno del 9 aprile 2020)

 

La favola del dolmen dei Paladini

In un tempo lontanissimo, in cui il tempo come noi lo intendiamo ancora non esisteva, c’era un’enorme distesa di terra, alle pendici delle Murge, ricca di vegetazione e di animali selvatici.
In quel tempo lontanissimo gli uomini e le donne non dovevano spaccarsi la schiena a zappare le dure zolle tra una roccia e l’altra, perché gli alberi offrivano frutti e olive e mandorle in quantità.
Tra i boschi di querce e le pinete si rincorrevano volpi, lepri e cinghiali.
Il barbagianni svolazzava col pettirosso.
Il falco afferrava la lucertola tra gli artigli e poi la lasciava andare.
In quella Terra benedetta c’era il mio villaggio, in cui la vita scorreva lenta e senza intoppi come l’acqua di un fiume diretta verso il mare. Passavamo i giorni nella lieta consapevolezza di vivere in pace. Nel nostro clan tutti gli uomini erano alti e forti, ma ce n’erano tre che battevano tutti gli altri in vigore e robustezza. Li chiamavamo “i giganti”. Forse era una mia impressione, ma quando uno dei tre giganti era nei paraggi, io sentivo tremare la terra e vedevo agitarsi i rami delle querce.
Un giorno i tre giganti si sfidarono a chi innalzasse la pietra più grossa per costruire una casa.
Tutto il villaggio si era radunato per assistere alla gara.
Il primo gigante afferrò un enorme masso e lo pose verticalmente sulla terra brulla. Tutti battemmo le mani.
Il secondo ne prese due, mastodontici, e li pose uno di fronte all’altro. Eravamo sbalorditi.
Poi fu la volta del terzo. Sollevò, uno dopo l’altro, tre macigni giganteschi. Più giganteschi dei tre giganti messi insieme e li sistemò in modo da formare una specie di camera.
Tutti rimanemmo senza fiato per quello che avevamo appena visto, ma il gigante non aveva ancora finito. Si guardò intorno, ansimando. I muscoli delle braccia gonfi come montagne. Ad un tratto scorse un enorme macigno, seminascosto dagli sterpi. Si diresse là, si chinò e lo sollevò tra le braccia. Lo trasportò verso i tre lastroni che aveva eretto poco prima e lo pose in cima, come se fosse un tetto. Ricordo i suoi muscoli che tremavano. Il sudore sulla schiena. Le vene del collo che sembravano esplodere.
Niente e nessuno avrebbero potuto mai più smuovere quella costruzione, l’opera di un gigante.
Né il maestrale che soffia dal mare. Né il sole cocente delle estati infuocate.
Né i più forti tra gli uomini.
Né i più feroci tra gli animali.
Né guerre. Né saccheggi.
Quella costruzione, il Dolmen dei Paladini, è ancora lì.
Solo l’idiozia, l’incuria, l’ignoranza, potranno distruggerla.

(Nella foto: il Dolmen dei Paladini, nei pressi di Corato. Monumento funerario utilizzato come sepolcro collettivo nell’età del Bronzo, 1500 a.C. circa).

IX secolo a.C.

Il giorno della mia morte il sole era alto nel cielo e faceva molto caldo.

Mio padre mi sistemò con cura nel grande dolio. Mi stese delicatamente le braccia e le gambe ai lati del corpo e mi baciò per l’ultima volta i capelli sottili.

Non avevo ancora sei anni.

«Non devi avere paura» mi sussurrò all’orecchio.

«Questa Terra ti proteggerà. E un giorno qualcuno ti troverà e rivedrai la luce. Te lo prometto».

Scavò quindi un’ampia fossa circolare e, aiutato dai parenti, vi adagiò l’anfora con me all’interno. Sapevo che non lo avrei rivisto mai più, ma feci come mi aveva chiesto. Non ebbi paura.

Lo vidi chinarsi a prendere una zolla di Terra tra le mani e lanciarla sopra di me. Anche gli uomini e le donne della mia famiglia, che erano venuti per la sepoltura, fecero lo stesso. Continuarono fino a quando mi ricoprirono completamente e fu allora che mi sentii avvolgere da due braccia forti.

Ancora una volta non ebbi paura.

«Chi sei?» chiesi.

«Sono la Madre Terra» mi rispose una voce morbida come i raggi di quel sole che prima brillavano nel cielo e che pure non erano riusciti a riscaldarmi.

Da quel momento la Madre Terra non mi abbandonò neanche un attimo.

Mi avvolgeva nei suoi abbracci odorosi di muschio umido e acqua piovana. Mi proteggeva dal caldo afoso dell’estate e dal freddo pungente dell’inverno. Mi cullava e mi accarezzava come fanno tutte le madri con i loro piccoli.

Avevo sempre in mente le parole di mio padre e per questo non ho mai avuto paura.

E poi, come avrei potuto? La Madre Terra mi raccontava ogni giorno le storie fantastiche di quello che accadeva in superficie e che io non potevo vedere.

Mi raccontava della fondazione di una città gloriosa, dalle possenti mura quadrate, e di sette Re lungimiranti, succedutisi nei secoli.

Mi raccontava di come quel posto in cui io giacevo, fosse diventato un luogo sacro. Un santuario dove i pellegrini, cantando sommessamente, recavano offerte votive in onore degli dei celesti.

Mi raccontava di grandi battaglie e astuti generali. Di imperatori magnanimi e di altri spietati. Di incendi e carestie, di vittorie e di stragi, di processioni trionfali ed esecuzioni. Di sacerdotesse custodi di un fuoco sacro e di intricati complotti politici. Della costruzione di opere ed edifici mai visti sulla terra. Di strade e acquedotti. Di templi e palazzi magnifici. Di teatri e circhi. Di gallerie e ponti.

Mi raccontava della grandezza, e del prestigio, e della fama che la città sopra di me godeva, fino a lambire i confini del mondo conosciuto. E poi della sua caduta. Del suo inesorabile declino. Di saccheggi e devastazioni. Della sua lenta ascesa e rifioritura.

Mi raccontava di grandi artisti e di uomini geniali. Di scultori eccellenti e pittori sopraffini. Di architetti e poeti. Di musicisti e letterati. Di uomini santi ed empi malvagi.

Mi raccontava, senza mai stancarsi, di guerre sanguinose e dittature. Di stragi e di morte. Di povertà e di ricrescita. Di amore sconfinato e di bellezze da capogiro.

Per un tempo senza fine la Madre Terra mi ha protetto e custodito come il bene più prezioso all’interno di uno scrigno. Come la perla più vivida e pregiata nascosta in un’ostrica.

Mi ha dato riparo per un tempo sconfinato come il mare. Come il firmamento. Come la terra stessa che mi conteneva e mi cullava… fino a quando, una mattina che faceva molto caldo, vidi di nuovo il sole alto nel cielo.

Proprio come mio padre mi aveva sussurrato all’orecchio in un passato vertiginosamente lontano, qualcuno mi trovò.

La Madre Terra mi ha baciato un’ultima volta sulla testa. Ha slegato il suo abbraccio morbido e ricolmo d’amore, e mi ha lasciato andare.

«Va’ adesso. Tutto quello che mi viene affidato, io lo custodisco con cura», ha detto.

«Qual è il tuo nome Madre?» le ho chiesto prima che due braccia forti mi sollevassero piano dal mio giaciglio secolare.

«Roma» mi ha risposto.

Il tizio che mi ha trovato aveva uno strano copricapo giallo sulla testa e la faccia sporca di fango. Mi ha sollevato con estrema attenzione, come se io fossi una specie di miracolo. La cosa più importante che gli fosse capitata nella sua vita. Sul suo volto c’era tutto lo stupore, la commozione e la meraviglia del mondo.

Non lo sapeva, non poteva saperlo, ma io gli ho sorriso.

©RitaLopez (pubblicato nella Gazzetta del Mezzogiorno del 17 novembre 2019)

L’importanza dell’arte di raccontare, in tutte le sue forme

Guardo le foto di Arturo Cucciolla, raccolte per la bella mostra “1968/1969” e mi sembrano incredibilmente familiari. Io, all’epoca, ero solo una bimba di due, tre anni. Una bambina dinoccolata dagli occhi avidi. Eppure quelle foto le sento come se fossero anche il “mio” passato. Mi ci riconosco. Probabilmente perché “quegli anni” hanno influenzato tutta la mia infanzia. E poi la mia giovinezza. Non sarei quella che sono senza “quegli anni”. La mia era una famiglia di operai. I miei nonni lavoravano alla Manifattura dei Tabacchi. Abitavo nel cuore del Libertà. Mamma casalinga… Il mio piccolo mondo era un mondo pieno d’amore e con pochi soldi. E poi… poi c’era mio zio, il fratello più giovane di mamma, che non aveva nemmeno vent’anni. Che si era messo a fare politica. Che portava i capelli lunghi e i jeans a zampa d’elefante. Che partecipava alle manifestazioni insieme agli operai. Che mi portava a passeggio a Piazza Umberto, soprannominata la Piazza Rossa, e mentre io mangiavo il gelato distribuiva in giro volantini. Adoravo mio zio perché era giovane. Perché mi faceva ridere. Ma soprattutto perché era uno che aveva disobbedito. A chi e a che cosa, ancora non m’era chiaro. Ma io così lo percepivo. Uno che si era sganciato dall’impostazione tradizionale della famiglia ed era entrato nel flusso di un movimento sconosciuto e occulto, scombinando la tranquillità sonnolenta delle nostre vite. Soprattutto di quelle dei miei nonni. Ricordo vagamente le urla. Le porte sbattute. Parole come “collettivo” e “lotta del proletariato” e “occupazione di Facoltà”. Mio zio era un mistero affascinante per me. Ed io lo amavo perché avvertivo che lui, a differenza degli altri componenti della mia famiglia, era il protagonista di un momento “epico”.

A ripensarci adesso, non avevo poi tutti i torti. Quegli anni sono stati davvero uno stravolgimento sociale. Hanno portato cambiamenti epocali. Hanno rappresentato lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Sono stati una vera e propria crisi, nel senso più positivo del termine. La crisi ha un valore epifanico. Squarcia il velo. Mostra il marcio. La crisi esige un cambiamento.

L’influenza di quel Movimento è durata molto a lungo nel tempo. Ha accompagnato gli anni delle scuole medie con le mie prime partecipazioni ai cortei delle femministe. Di nascosto, ovviamente. Ha aleggiato sugli anni formativi del liceo e, dopo, su quelli straordinari dell’università a Roma.

Bari. E Roma. Come è stato per Arturo. Abitavo alla Casa dello studente, presso ponte Milvio. Ero una giovane donna proletaria e meridionale. E a questo si aggiungeva adesso anche la condizione di fuorisede. Gli ingredienti c’erano tutti. Un mix esplosivo. La Casa dello Studente di Roma era un edificio di proprietà del Ministero degli Affari Esteri. Fu occupata dagli studenti fuorisede molti anni prima che ci andassi io. Tutti li conoscevamo, anche se erano molto più grandi di noi. Erano quelli che “avevano fatto” il 68. Dei personaggi mitologici, ai nostri occhi. Mi emoziona rivedere, tra le fotografie di Arturo Cucciolla, la scalinata della Facoltà di Lettere e Filosofia stracolma dei giovani di allora. I vetri rotti dell’edificio di Giurisprudenza. Le barricate erette davanti alla statua della Minerva. I ragazzi a cavalcioni sul tetto della Facoltà di Valle Giulia, la stessa che adesso frequenta mia figlia.

Quello che noi delle generazioni successive invidiavamo di “quegli anni” era la variegata e strabiliante ricchezza della composizione sociale del Movimento. C’erano gli studenti, insieme agli operai, insieme alle donne, insieme agli intellettuali. Una coesione stravagante che non sarebbe mai più stata raggiunta. Quello che ammiravamo, era la disponibilità gioiosa alla partecipazione attiva, da parte di tutti. Era la coscienza di quanta forza deriva dallo stare insieme, dal fare gruppo compatto. Era la fierezza di essere protagonisti. Ecco: la fierezza! C’è fierezza sulle facce dei ragazzi di queste fotografie. C’è fierezza nel corteo degli studenti del Flacco di Bari. Sui volti dei manifestanti del Movimento Studentesco a Roma. C’è fierezza sui volti degli operai metalmeccanici. Gente che “vuole” lavorare, ma lavorare a condizioni umane. C’è tutta la consapevolezza che la protesta non è soltanto un diritto, ma un dovere. Come sui volti straordinari di quelle donne che distruggono le baracche di Borghetto Latino, insieme ai loro uomini. Il lavoro… La casa… Diritti basilari. Diritti sacrosanti. E anche se i volti sono contratti per il dolore, corrugati per la rabbia, c’è una tale dignità in queste donne e in questi uomini ritratti da Arturo Cucciola, che è impossibile non provarne empatia. La stessa dignità che si ritrova sui volti dei pescatori calabresi che scherzano sulla spiaggia, prima di andare a pescare di notte…

Al di là del fortissimo potere evocativo che su di noi, oggi, suscita il bianco e nero, al di là dell’importanza che uno scatto fotografico significava tanti anni fa, in quanto consacrazione, solennizzazione di un momento, il fascino di queste fotografie consiste soprattutto nell’empatia mostrata verso il prossimo da parte di un ragazzo, un giovane barese studente di architettura. Arturo in queste foto non ha scattato da spettatore, ma da “militante”. Da militante di vita. Ci stava in mezzo, fino al collo. Totalmente coinvolto. C’è passione e coinvolgimento persino in quelle fotografie che mostrano un quartiere Tiburtino irriconoscibile, o la periferia degradata di Cinecittà. O in quelle che ritraggono bambini che litigano durante la processione di Pasqua, a Valenzano, completamente ignorati dagli adulti.

Ciò che “quegli anni” ci hanno lasciato, tralasciando quali siano i nostri credi e le nostre convinzioni politiche, dando per scontato le obiettive, importantissime, fondamentali conquiste sociali, credo sia proprio il meraviglioso messaggio che cambiare è possibile se facciamo rete, se si sta in gruppo, se ci crediamo. Che ribellarsi non è un peccato, a volte. Anzi. Che l’individualismo esasperato impoverisce qualcosa di estremamente prezioso: la nostra identità in quanto appartenenti alla razza umana. Come archeologa non può non starmi a cuore l’importanza della testimonianza del passato, in tutte le sue forme. È necessario raccontarlo il passato. E queste fotografie lo fanno. Raccontano una storia bellissima. Un sogno che può realizzarsi. La fantasia che è caratteristica straordinaria degli esseri umani. La speranza che il mondo possa comunque essere un posto migliore. Anche domani. Soprattutto domani.

©RitaLopez

(pubblicato nella Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 dicembre 2019)

 

Compa’ Rafaiele

Non so perché io e Enza, allora chiamata da tutti Enzù e che soltanto pochi anni dopo sarebbe diventata Enza la tossica, avessimo preso così a cuore compa’ Rafaiele, il pescatore. Sarà stata la tenerezza che ci ispiravano le sue spalle ossute e ricurve, quando era intento a riparare le reti, o i suoi occhi velati di cataratta, del colore del mare. Per me ed Enza, Enzù o Enza la tossica, tutto iniziò come un gioco.

Compa’ Rafaiele viveva in un basso, uno di quegli stanzoni che si aprono direttamente sulla strada. Ci aveva abitato da sempre con la moglie Caterina e un tempo anche con i suoi tre figli che poi, uno dopo l’altro, emigrarono in America. Andava a pesca tutte le sere e rientrava la mattina presto, dopo aver ormeggiato la sua barca ‘nderr a la lanz. Si volevano bene Rafaiele e sua moglie. Si facevano compagnia. Poi Caterina morì. Così, all’improvviso. Le venne un infarto mentre abbrustoliva i peperoni sulla graticola rovente, là davanti al basso. Accorsero tutti i vicini. Anche io e Enza andammo a vedere. Compa’ Rafaiele stringeva la mano di sua moglie:

«Nun mi si lassànn! Nun mi si lassànn!» le ripeteva all’infinito. E invece Caterina lo lasciò da solo stavolta.

Un giorno compa’ Rafaiele era seduto davanti al basso con una lunga rete tra le mani. Era fermo, completamente imbambolato a rimirare un punto indefinito davanti a sé. Ci sembrò infinitamente triste. Quella sera stessa Enza arrivò con un involucro di carta marrone: «È una fetta del calzone di cipolla che ha fatto mia madre», disse. «Voglio portarla a compa’ Rafaiele».

Ci dirigemmo risolute verso il vicolo del pescatore. La porta del basso era socchiusa. Non si udiva alcun rumore dall’interno. Enza si avvicinò in punta di piedi alla finestrella e posò con cautela la fetta di calzone sul davanzale.

Scappammo via, verso la muraglia che dà sul mare. Non ci scambiammo una parola. Pensavamo alla faccia che avrebbe fatto compa’ Rafaiele quando avrebbe scartato l’involucro. Avrebbe annusato la fetta di calzone, circospetto. Le avrebbe dato un primo morso. Avrebbe masticato a lungo il boccone prelibato, con quelle sue guance scavate. Avrebbe assaporato la morbidezza della cipolla, cotta a lungo con le olive, a fuoco lento. E alla fine avrebbe sorriso.

Per tutta l’estate io e Enza portammo ogni sorta di prelibatezze sul davanzale della finestra di compa’ Rafaiele. Tutti i giorni, nelle ore più disparate, per non farci scoprire.

«Compa’ Rafaiele av’assùt matt» sentii dire da mia madre a mio padre.

«Va dicendo che la moglie gli porta la roba da mangiare dall’aldilà». Mi venne un colpo al cuore, ma feci finta di niente.

«Dobbiamo smettere» dissi a Enza. «Lui crede che è Caterina a portargli quelle cose, capisci?».

Enza non batté ciglio.

«E allora?» rispose. «Se pensa che sia il fantasma di Caterina, dov’è il problema?».

«Enzù, ma quello di cui lui è convinto, non è la verità!».

«E qual è la verità? Ciò che ti fa stare male o ciò che ti fa stare bene? Se quello in cui credi ti aiuta a vivere meglio, allora quella è la verità. La tua verità. Se una cosa è vera per te, allora è vera. E basta».

L’estate passò e ricominciò la scuola. Sul davanzale di Rafaiele si alternarono cachi maturi e caldarroste, frittate di funghi e marmellate di arance, fichi secchi e cartellate al vin cotto.

Tutto però ebbe termine con la fine di quell’anno scolastico: i nostri furti quotidiani e la nostra adolescenza. Anche il fantasma di Caterina smise di portare i suoi doni.

Mio padre ebbe il trasferimento a Milano e la famiglia di Enza ottenne la casa popolare a Japigia.

Il pomeriggio prima della mia partenza io e Enza, nascoste dietro un vicolo, fumavamo con foga una sigaretta dopo l’altra. Fumavamo e piangevamo. Lacrime e nicotina. Fumo e singhiozzi. Che ne sarebbe stato di noi e della nostra amicizia?

E che ne sarebbe stato di compa’ Rafaiele?

Tornai a Bari due estati dopo. Andai subito a cercare Enza a Japigia, senza trovarla. Venni a sapere che aveva preso una brutta strada. Adesso la chiamavano Enza la tossica.

Però rividi Rafaiele e non era più lo stesso. Da quando Caterina aveva smesso di portargli i suoi doni, andava ripetendo in giro che sua moglie era morta per la seconda volta. Mi fece pena, così abbattuto e incurvato.

Quale era il vero Rafaiele, quello più autentico? Il vecchio bizzarro che pedalava fischiettando sulla muraglia, con un fascio di tuberose fragranti da sistemare sotto il tabernacolo di Caterina, o il fantasma curvo, seduto davanti al basso ad aspettare la morte?

E quale era la vera Enza per me? Enzù o Enza la tossica? Quale era la mia verità, quella che mi faceva stare meglio? Avrebbe mai potuto, Enza la tossica, farmi smettere di amare la mia Enzù?

Sono passati tanti anni adesso.

Guardo il cielo grigio dall’interno del mio studio. Una farfalla si è posata sulla rosa canina sul davanzale della mia finestra.

Enza lo aveva capito già da allora. Me lo aveva detto prima che io venissi qui a Milano, prima dei miei studi, della mia laurea, del mio dottorato, prima che diventassi uno degli “strizzacervelli” più conosciuti della città. Ognuno si costruisce la propria verità, per sopravvivere, per difendersi, per mettere in scena una spiegazione razionale che funzioni, che dia pace al proprio cervello, al proprio dolore. E se quella verità, anche se frutto della propria immaginazione, cui poi si finisce per credere, serve a farci alzare dal letto la mattina, ad andare avanti, allora quella verità è vera. Quella verità è sacrosanta.

La farfalla che svolazza davanti alla mia finestra, una volta, era un bruco.

© RitaLopez

(Pubblicato nella Gazzetta del Mezzogiorno del 1° Novembre 2019)

 

Lucrezia

Non c’è bisogno di mostrarsi licenziosa per suscitare gli istinti brutali di una mente depravata. Lucrezia era chiamata “la casta”. La pudica. Era l’esempio di virtù muliebre cui tutte le spose dovevano ispirarsi.
A Roma, alla fine del VI secolo avanti Cristo, regnava un re sanguinario. Si chiamava Tarquinio, detto “il Superbo”, a causa della sua indole arrogante.
Durante l’assedio di Ardea, nell’ambito di una guerra lunga e aspra, gli ufficiali, di sera, bevevano e discutevano attorno al fuoco. E, ovviamente, parlavano di donne.
Sorse presto una disputa su quale fra le mogli dei presenti, fosse la più virtuosa. Pare che il primato andasse alla moglie di Collatino, Lucrezia. La più morigerata di tutte.
Collatino stesso propose di tornare di nascosto a Roma per dimostrare la fedeltà della sua sposa.
E così un gruppo di uomini, inebriati dal vino, si misero in viaggio. Giunti a Roma, proseguirono per Collazia, dove sorpresero Lucrezia intenta a filare la lana in compagnia delle sue ancelle.
Il vanto di uomo è anche questo: la castità del corpo di sua moglie.
In quel gruppo di uomini c’era anche Sesto Tarquinio, il figlio del Superbo.
Non c’è bisogno di ammiccare con seduzione, per risvegliare il folle desiderio della bestia.
Anche la mirabile castità di una donna può risvegliare il tarlo di un’insana libidine.
Tempo dopo, una notte senza luna, Sesto Tarquinio tornò a Collazia da solo a casa di Lucrezia e la stuprò, violandola nello stesso modo in cui suo padre, il Superbo, aveva violato Roma.
Il vile trionfo di un uomo è anche questo: il possesso del corpo di una donna, anche contro la sua volontà. Soprattutto contro la sua volontà.
La giovanissima sposa, prostrata non solo dal dolore ma anche da un irragionevole senso di colpa, affondò la lama di un pugnale nel suo petto innocente, cercando di liberare l’anima dalla sozza prigionia che sentiva essere diventato ormai il suo corpo.
Il tormento di un uomo è anche questo: il supplizio delle membra di una donna.
Dopo che Lucrezia si squarciò il petto, i Romani, capeggiati da Collatino, suo marito, e l’amico Giunio Bruto, giurarono vendetta contro tutta la stirpe dei Tarquini.
La rabbia cieca di un uomo nasce anche da questo: dal corpo di una donna trasformato in vessillo.
Lucrezia si suicidò a Roma nel 509 avanti Cristo, dopo aver subito una violenza sessuale.
Nel 509 avanti Cristo cadde la monarchia e sorse la Repubblica.
Furono quindi eletti dal prefetto dell’Urbe due consoli, nei comizi centuriati. Sapete chi?
Collatino e Giunio Bruto.
A volte l’oltraggio privato di un uomo può trasformarsi in pretesto per una rivoluzione politica, con la benedizione del sangue sacrificale del corpo martoriato di una donna.
Lucrezia fu uccisa due volte.
Una volta dal mostro. E una volta dalla morale.

Partenope

Che compito scellerato quello che gli dei affidarono a me e alle mie due sorelle!

Leucosìa, la dea bianca, Lìgeia, colei che ha la voce chiara, ed io, Partenope, la virginale, abitavamo sull’isola di Antemoessa, circondata dalle onde spumeggianti del Mediterraneo.

Che destino infame il nostro, che non dovevamo consentire il passaggio, attraverso le coste rocciose, di essere umani che restassero vivi, pena la nostra stessa morte.

Provavo pena per quei marinai, costretti a passarci davanti e a essere ammaliati dal suono di miele che usciva dalle nostre bocche. Obbligati a impazzire, fino a gettarsi in mare. Fino a essere scaraventati contro gli scogli acuminati che avrebbero ridotto le loro carni in brandelli.

Che sorte avversa la nostra, che ci voleva appostate con le nostre brutte zampe d’uccello su una rupe, le ali spiegate al vento, costrette a impedire la gioia del ritorno a casa.

Eravamo prigioniere di una terra ricoperta di cadaveri in putrefazione periti a causa della nostra voce, che pure era soave come un giglio.

La voce di morte delle Sirene “dolci fino a morire”.

Il canto come perdizione.

Il canto come traviamento.

Peccato mortale.

E poi è arrivato il più grande mentitore dell’antichità, Ulisse, l’infaticabile esploratore dell’ignoto. Tappò con la cera le orecchie dei compagni e si fece legare all’albero maestro della nave, pur di ascoltare il nostro canto.

La sua nave passò indenne e noi fummo sconfitte.

Non ci rimase altro da fare che gettarci dalla rupe e andarci a schiantare sulle rocce. I nostri corpi, il mio e quello delle mie due sorelle, furono trasportati dalle correnti in tre direzioni diverse. Le mie spoglie giunsero sulla spiaggia di Megaride, in Campania. Lì mi trovarono dei pescatori che mi venerarono come una dea. In mio onore eressero un altare e organizzarono giochi sulla spiaggia. Nel punto esatto in cui il mio corpo si dissolse, fu fondata la città di Partenope.

Che beffa atroce per gli dei, quando vennero a sapere che in quella città il canto era diventato simbolo di gioia, e di amore, e di passione.

Che smacco, per loro, quando si resero conto che a Partenope si canta. Si è sempre cantato. Si canterà sempre.

Si canta quando si è innamorati.

Si canta quando si soffre.

Quando ci si ribella.

Il canto della Sirena s’è trasformato da simbolo di morte a simbolo d’amore e vita.

“Viento trase dint’e piazze,  rump’e fenestre e nun te fermà’.

Viento viento, puorteme ‘e voci e’ chi vo’ alluccà’”.

©RitaLopez

“Apri gli occhi” di Rita Lopez (Florestano edizioni)

Onorata di essere su Libroguerriero…

libroguerriero

Risultati immagini per apri gli occhi florestanoRecensione di Raffaella Tamba

“Apri gli occhi”, il mantra che veniva gridato piuttosto che detto a tutte le ragazze, fin da piccole, “apri gli occhi!” e stai in guardia perchè il mondo è un predatore a caccia di prede. E le bambine, le ragazze, le donne, sono le prede designate.

Fin dalle prime pagine è evidente l’amarezza soffusa alla vita di una parte della popolazione, la più debole, la più ingenua per natura. Per questo il grido “Apri gli occhi!” che, nel dialetto barese dell’autrice, “Iapr l’ecchij” è ancora più denso di primordiale ineluttabilità, è il motto formativo delle femmine: “Un monito fattosi ormai consuetudine. Al posto di “ciao”, “ci vediamo domani”, o “stammi bene”. Apri gli occhi! Non dare confidenza a nessuno. Non fermarti a parlare con gli sconosciuti. Apri gli occhi! Non rispondere alle provocazioni. Non immischiarti in cose che non ti riguardano. Apri gli…

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La dea Giustizia del Libertà

È una mattina piovigginosa di inverno e cammino al fianco di mio padre per le vie del nostro quartiere. Ho solo dodici anni, la mia testa non raggiunge ancora la sua spalla. Sa che mi vergogno a dargli la mano. Non sono più una bambina ormai. Di tanto in tanto però sento le sue dita poggiarsi discrete sul mio omero. Camminiamo in silenzio sul marciapiede bagnato dalla pioggia fine fine. Superiamo la Manifattura dei Tabacchi, uno dei baluardi che formano il perimetro di quello che è il mondo a me familiare, e poi le palazzine basse delle case popolari. Procediamo in via Ettore Fieramosca. La percorriamo a lungo, fino in fondo, fino a raggiungere zone che non bazzico quasi mai, lontano dalle strade note che costituiscono la meravigliosa concretezza della mia quotidianità. A un certo punto svoltiamo a sinistra ed eccolo proprio davanti a me. È la prima volta che lo vedo. Si trova all’interno di una cancellata, con un’enorme piazzale di fronte. È un palazzo grande, lunghissimo, con una fila ininterrotta di vetrate severe. Una costruzione che a me sembra modernissima, nulla a che vedere con le basse e vecchie palazzine delle strade in cui gioco, lì a ridosso della ferrovia appulo-lucana. Al di sopra dell’ingresso, che si trova in cima a una doppia scalinata, campeggia una scritta inequivocabile. Esplicita. Eloquentissima. PALAZZO DI GIUSTIZIA.

Avverto una specie di groppo in gola.

Io e mio padre siamo lì perché oggi c’è questa cosa che si chiama “udienza”. Papà mi ha spiegato che in una udienza il giudice incontra i difensori delle parti, cioè gli avvocati e, se lo ritiene opportuno, anche le parti, cioè io. A ottobre ero stata investita da un’auto mentre attraversavo le strisce pedonali all’inizio di viale Ennio, proprio prima di imboccare le scale che portano al sottopassaggio di via Quintino Sella. La compagnia assicurativa dell’automobilista che mi aveva investito aveva fatto storie per pagare e papà stavolta si era proprio incazzato. Io quel giorno dell’incidente me lo ricordo bene anche adesso. All’uscita da scuola dovevo incontrare Nicola. Ci eravamo dati appuntamento in Corso Italia, angolo via Manzoni. Mi piaceva un sacco Nicola. Suo padre faceva il contrabbandiere di sigarette, ma a me non importava niente. Mi piacevano i suoi occhi chiari come il ghiaccio, la sua aria un po’ teppista e un po’ spavalda, e l’idea di avere un appuntamento con lui mi scombussolava lo stomaco. Ho attraversato la strada senza guardare, sbucando all’improvviso da dietro un furgoncino parcheggiato in doppia fila. Non ho sentito dolore. Solo un gran botto. BUM! Sono caduta nel bel mezzo della strada, sulle strisce zebrate, senza riuscire più ad alzarmi. Sopra di me un capannello di persone, le teste dei miei compagni di classe, e il cielo azzurro di ottobre. Fui portata in ambulanza al Policlinico mentre il povero Nicola aspettava inutilmente all’angolo di via Manzoni. Mi operarono dopo qualche giorno. Il mio malleolo si era completamente rotto in due parti e il mitico professor Solarino, chirurgo del reparto di Ortopedia infantile, “me lo riattaccò con un bel chiodo”. Così mi disse. Nessuno seppe mai che io quel giorno correvo come un cerbiatto disperato per andare a incontrare Nicola dagli occhi di ghiaccio.

Io e mio padre oltrepassiamo quindi i cancelli del Palazzo di Giustizia. Mi accorgo di una statua che giganteggia su un piedistallo di marmo in mezzo a fiotti di acqua che spruzzano allegri da una fontana. Si tratta di una donna. Una donna fiera e meravigliosa. I capelli svolazzanti come la criniere di una giumenta.

«È la Giustizia» mi dice papà.

E io non so perché, ma sento lo stomaco vibrare come quel giorno che dovevo incontrare Nicola all’uscita da scuola.

Mi fermo ad ammirare quella donna orgogliosa e impettita. L’indice della sua mano destra indica una bilancia, con i bracci perfettamente simmetrici. Già, perché la dea Giustizia è ponderata. Equilibrata. Equa.

La sua mano sinistra impugna una spada. Già, perché la dea Giustizia deve avere la forza e il potere per far rispettare i propri giudizi.

I suoi occhi sono chiusi. Già, perché la dea Giustizia è imparziale.

Sono completamente assorbita dalla sua vista. La guardo con ammirazione. Con reverenza, quasi. Mio padre mi prende per il braccio:

«Entriamo ora?», mi dice.

«Cosa devo fare?» gli chiedo con una punta di preoccupazione.

«Niente di particolare», mi rassicura papà. «Devi solo essere onesta e dire la verità».

Il mio avvocato difensore ci riceve nel suo studio. È un tipo alto e allampanato, ma mi sta simpatico.

«A te dispiace avere questa brutta cicatrice sulla caviglia, vero? » mi chiede, aspettandosi una mia conferma.

Lo guardo leggermente perplessa.

«No, a dire il vero a me piace».

«Ti piace?» sgrana gli occhi. «E non pensi a quando diventerai grande e porterai i sandali con i tacchi alti? Non t’importa che questa cicatrice si vedrà così tanto?».

«No» gli rispondo. «A me piace la mia cicatrice». Ed è questa la verità.

Il mio simpatico e allampanato avvocato scuote la testa. Si rivolge al suo collega che ha la scrivania vicino alla sua.

«Miche’» gli domanda con aria ironica «ma ti rendi conto chi devo difendere io oggi?».

L’avvocato Michele ride.

Quando l’udienza è terminata esco con mio padre nel piazzale del Tribunale. La donna con gli occhi chiusi e la spada ben stretta nella mano mi appare più orgogliosa e superba che mai. Torno a casa ripercorrendo le strade del Libertà con mio padre al mio fianco. Con la fierezza nel cuore.

Quelli dell’assicurazione dovettero pagare.

La mia cicatrice dopo tutti questi anni è ancora qui, sulla mia caviglia.

Anche se è molto più sbiadita di allora, a me piace sempre tanto. Ed è questa la verità.

© RitaLopez

Sirio B

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Si dice che la mia tribù, quella dei Dogon, nella Repubblica del Mali, si sia messa in contatto, in un passato lontanissimo, con  misteriosi alieni abitanti di altri mondi. Si dice che essere evoluti, provenienti da un pianeta della stella Sirio, abbiano svelato alla mia gente l’origine della vita.

Io avevo solo 14 anni e anche se sono stato uno dei pochi fortunati a frequentare la scuola, credevo a quello che dicevano i nostri vecchi saggi.

Solo pochi anni fa gli astronomi moderni hanno potuto confermare l’effettiva esistenza del pianeta della stella Sirio, che hanno chiamato Sirio B. Ma noi della tribù dei Dogon lo sappiamo da sempre che Sirio è una stella multipla e che l’orbita ellittica di Sirio B richiede un tempo di quasi 60 anni. Per questo, da sempre, la nostra festa più importante si svolge ogni 60 anni. Si costruiscono maschere enormi a forma di serpente, lunghe anche 10 metri.

Io a scuola ero tra i più bravi. Percorrevo otto chilometri al giorno, fra andata e ritorno, per raggiungere la città di Timbuktu. Ero bravo in tutte le materie, anche in scienze ma, nonostante questo, non ho mai smesso di credere alle leggende misteriose dei nostri vecchi e al nostro legame speciale con la stella Sirio B.

Un pomeriggio un gruppo di jihadisti colpì la città. Undici mortai lanciati in direzione del “super camp” dell’Onu. Tre autobombe mascherate da vetture delle Nazioni Unite e dell’esercito maliano. Una cinquantina di assalitori con armi automatiche, cinture esplosive e finti caschi blu. Fu un massacro. Riuscii a scappare tra la folla urlante e arrivai al villaggio con i vestiti sporchi di fango e del sangue schizzato dai morti esplosi vicino a me.

Fu allora che la mia famiglia e i saggi della tribù dei Dogon, decisero che dovevo andare via. Dovevo abbandonare la mia Terra e tentare la fortuna in Europa. Lì, secondo la mia gente, uno bravo e studioso come me avrebbe avuto l’opportunità di diventare qualcuno. Mi ribellai. Piansi. Strepitai. Ma così era stato deciso per il mio bene. Il giorno della partenza mamma ripiegò con cura la mia pagella e la cucì delicatamente all’interno della mia giacca migliore, quella che avrei indossato per il viaggio.

“Fai vedere a quella gente chi sei, quanto sei bravo. E ti vorranno bene”.

Mi baciò sui capelli ed entrò nella nostra capanna, senza più voltarsi.

Mio padre e mio zio mi accompagnarono. Fu un viaggio lunghissimo e pericoloso. Sulle coste a est di Tripoli c’era un grande barcone, che mi aspettava. Ricordo una moltitudine di gente accalcata, che cercava di salire. Urla. Pianti di bambini. Donne spaventate. Guardai mio padre con occhi imploranti.

“Va’” mi disse. “Che la tua vita sia felice”.

Non ebbi neanche il tempo di abbracciarlo. Fui spinto letteralmente nella stiva del barcone.

E poi non so più niente. So solo che viaggiammo al buio, intrappolati come topi nella pancia del peschereccio. Tra il vomito. E la puzza degli escrementi. E il sudore. E le lacrime.

So solo che chi guidava quel barcone stracarico di migranti, era ubriaco e fumava hashish.

So solo che fu la tragedia più grande di sempre e che morimmo in più di 700. Alcuni dicono più di 900.

Ma la cosa più importante che so, è che i saggi della mia tribù avevano ragione.

Sirio B è bellissima. Si sta lentamente spegnendo ma, fino ad allora, ci vorranno miliardi di anni.

La pagella che mamma mi aveva cucito all’interno della giacca, qui non mi servirà.

© RitaLopez

La magia di Canosa

Ci sono dei posti magici in Italia. Dei luoghi dove passato, presente e futuro tendono a smussare i loro confini, per confondersi in un tempo che va al di là delle rigide suddivisioni in minuti, ore, giorni, mesi, anni, secoli.

Ci sono dei posti in cui la nostra storia, la storia di tutti, si dispiega davanti agli occhi srotolandosi come un nastro, quasi a volerci dire:

«Vedi? È da qui che veniamo. Questo siamo stati».

Uno di questi posti è Canosa di Puglia dove, poche sere fa, avevo la presentazione del mio libro “Vie d’uscita”. Canosa, come una piccola Roma, sorge su sette colli, dominanti la valle dell’Ofanto e la pianura del Tavoliere.

In poche ore ho avuto l’onore di visitare tre luoghi simbolo del passato glorioso di questa cittadina, fondata, secondo la leggenda, dall’eroe omerico Diomede, ma che vanta i suoi primi insediamenti molto più indietro, al periodo neolitico.

Il primo luogo di cui voglio raccontarvi è l’ipogeo Scocchera. E’ una tomba a camera, del III secolo a.C., di derivazione ellenica, interamente scavata nella roccia, cui si accede attraverso un lungo corridoio (dròmos). E’ uno dei tanti ipogei disseminati nel territorio, in cui trovavano sepoltura gli antichi Principi della Daunia. Questa era la loro dimora ultraterrena.

La camera è preceduta da un ingresso con semicolonne, capitelli e frontone (naiskos). Si notano ancora tracce di pitture dai rossi vivaci, dai gialli accesi. Il corredo tombale era ricchissimo. Vi fu ritrovato un elmo gallico in ferro, bronzo e corallo, che adesso è conservato nel Museo Archeologico di Berlino e una corazza anatomica, custodita ad Amburgo. Altri reperti preziosi, come statue di oranti, vasi, coppe di vetro, orecchini e uno scettro d’oro, sono disseminati tra i Musei di Copenaghen, Atene, Parigi, Napoli, New York.

Così giungevano all’ingresso degli Inferi i nostri grandi antenati Dauni. Con i simboli del loro tesoro. Ancora ammantati di gloria. Da qui passavano senza tornare più indietro.

L’antica cultura dauna e poi quella ellenica, cedettero gradualmente il posto a quella romana.

Il secondo luogo magico che ho visitato è la domus di Colle Montescupolo, del periodo augusteo. E’ una domus ad atrio, circondato da vari ambienti, alcuni dei quali dotati ancora delle soglie originarie, con i rispettivi alloggiamenti per le porte, e delle pitture, in quelle stanze che conservano gli alzati, e di un mosaico, quasi integro, nel triclinio. Chi abitava in questa casa dominava il foro della città più potente di Puglia.

Nella zona di servizio c’erano la latrina, la cucina e un piccolo impianto termale di uso privato (balneum).

Una via cava, simile a  quelle che conosciamo dal mondo etrusco, costeggiava la domus, solo che questa è in opus incertum. Ogni basolo è diverso dall’altro.

Dov’è la magia, mi chiederete? La magia è leggere, davanti a voi, il succedersi del tempo trascorso e vedere, sotto i vostri occhi, come questo luogo sia stato abitato ininterrottamente dal Neolitico ai nostri giorni. Grazie agli scavi che si sono succeduti, si vede chiaramente che la domus è stata edificata su una precedente abitazione dauna, e l’abitazione dauna costruita al di sopra di tombe arcaiche di VI-V sec. a.C., della tipologia a grotticella, e le tombe arcaiche, a loro volta, sorgono su una capanna del Neolitico.

La storia illustre di Canosa continua anche nel Medioevo quando diventa sede di una delle più importanti diocesi di Puglia, soprattutto durante l’esistenza del vescovo San Sabino, nel VI sec. d.C. e poi ancora con l’eroe Normanno della Prima Crociata, il principe Boemondo I d’Antiochia, che dal 1111 riposa nel Mausoleo che da lui prende il nome. E’ questo il terzo luogo magico in cui si accede attraverso una magnifica porta bronzea a due imposte.

Ma ogni notte magica che si rispetti, ha un finale altrettanto strabiliante.

La mia guida d’eccezione mi ha chiesto a che ora avessi la presentazione del mio libro.

Gli ho risposto che non c’era molto tempo, che mancavano solo 20 minuti.

«Ce la facciamo» mi ha detto con aria complice.

E così siamo saliti in macchina e ci siamo diretti, appena fuori dal paese, su per una stradina scoscesa e immersa tra gli ulivi. Indovinate dove? Al Parco Archeologico di San Leucio. Solo il tempo di andare a vedere lei, la testa di una donna misteriosa scolpita nella pietra.

Col cuore colmo di emozione, nel silenzio in cui il sito archeologico era sommerso, nel buio della sera, ho ascoltato la voce della donna.

«Scelsero un colle» mi ha detto «immerso dagli ulivi, per costruire il più imponente tempio italico dell’Italia meridionale, dedicato alla dea Minerva – Atena Ilias.

Vedi? Sono rimasta solo io. Io e il canto assordante delle cicale di giorno, e dei grilli di notte.

Ma se ti avvicini di più con l’orecchio alla mia bocca, ti parlerò ancora.

Ti dirò della enorme funzione propagandistica del tempio.

Ti racconterò di come fu sancita, ideologicamente e politicamente, l’alleanza tra i “principi” indigeni e i Romani, nel 318 a.C.

Ti rivelerò l’enorme potenza del messaggio religioso, affidato alla pietra calcarea.

Ti spiegherò come Roma legittimò il potere di Canusium, l’antica Canosa di Puglia, su questo territorio immerso dagli ulivi che, un tempo, si chiamava Daunia».

Questa, signori miei, non è forse magia?

Ci sono dei posti che ti entrano nel cuore, per non uscirne più.

Canosa, per me, è uno di questi.

(Un grazie particolare a Renato Tango, guida d’eccezione. A Sabino Silvestri, Presidente della Fondazione archeologica canosina. A Claudia Vitrani, Direttrice de “La Terra del Sole”. E a Rosa Anna Asselta, Presidente Fidapa di Canosa, che ha reso possibile tutto questo).

Il teatro nel cuore del Libertà

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L’edificio che mi sta nel cuore non si trova nel centro luccicante della città, regno dello shopping selvaggio e del passeggio. E neppure nel suo cuore storico. Non ha affatto un aspetto maestoso. Anzi, a vederlo, dall’esterno, non è neanche bello.

L’edificio che mi è rimasto nel cuore si trova nel Libertà, il quartiere dove sono nata e cresciuta. E’ uno dei baluardi che segnano il perimetro immaginario di quel quadrilatero in cui il destino ha deciso che nascessi. Una sorta di cinta muraria della mia fantasia, dove mi sentivo a casa. Una specie di pomerio, niente a che vedere con quello celeberrimo del Palatino, ma ugualmente sacro e invalicabile ai miei occhi di ragazzina. I limiti di quel mio quadrilatero erano definiti dai binari sopraelevati della ferrovia appulo-lucana da una parte, dalla Manifattura dei Tabacchi dall’altra, dall’ex Ospedaletto dei bambini, che in quei turbolenti anni ’70 era un orrido fantasma color rosa fucsia popolato dai topi e dai piccioni e, infine, dal posto più bello del mondo: il teatro del Redentore, di proprietà dei salesiani. Vi si accedeva affiancando tutto l’oratorio maschile e poi imboccando una via senza uscita, a sinistra, proprio alle spalle della chiesa. A vederlo dall’esterno, somigliava più a un vecchio capannone industriale in disuso. Una costruzione squallida. In una via squallida. Ma dentro, signori! Oh! dentro si celava il regno incantato delle favole. Il luna park della fantasia. Il non-luogo per eccellenza, dove tutte le possibilità correvano il meraviglioso rischio di diventare reali. Riuscite a immaginare un gruppo di ragazzi del Libertà, in quegli anni ’70, a cui viene dato il permesso di utilizzare un teatro, per poterci rappresentare uno spettacolo tutto loro? Riuscite a capire che razza di sogno fantasmagorico era, per noi che abitavamo in un quartiere senza giardini, senza parchi, senza piazze? Era “IL” SOGNO. Il nostro sogno. Ed è di quel sogno che vi voglio raccontare, soprattutto adesso, soprattutto oggi, perché quel teatro sta morendo e per noi, che lo abbiamo amato, è come vedere agonizzare un vecchio amico.

***

Alle note di “Selling England by the pound”, sparata a tutto volume dallo stereo di Nico, il teatro fu ripulito da cima a fondo: la platea con i sedili il legno, le scale che portavano al piano rialzato, ogni singola panca della galleria, gli assi del palcoscenico, gli ambienti dietro il palco che fungevano da camerini, i vecchi gabinetti incrostati, l’ingresso. Eravamo al teatro ogni giorno. Eravamo là sempre. Ogni volta che potevamo. C’era bisogno di scrivere i testi, rileggerli, correggerli, rivedere le battute. Dovevamo pensare alla scenografia. E poi ai costumi. Al trucco. Dovevamo comporre le musiche. E scrivere le parole. E fare le prove di canto. Per mesi e mesi lo spettacolo fu la nostra occupazione principale, l’impegno meraviglioso e febbrile, il pensiero costante, il chiodo fisso. E il numero dei ragazzi del Libertà, che si lasciavano coinvolgere, cresceva di continuo, come un fiume in piena. Avrei voluto trascinare con me anche Angelo, per il quale avevo sempre avuto un debole, da quando era bambina. Da quando mi ricordo. Angelo, il cui cognome incuteva timore solo a pronunciarlo, perché suo nonno era uno dei boss della mala barese e il cui nome, invece, risuonava totalmente inappropriato per uno che di angelico non aveva nulla. Avvertivo il suo sguardo poggiarsi fastidioso sul mio fondoschiena, ogni volta che lo incontravo per la via e lo superavo. Una volta, per strada, vicino casa mia, fece scivolare tra le mie mani un bigliettino stropicciato. Lo lessi non appena mi ritrovai al sicuro della mia stanza. Leggevo e arrossivo, e pensavo con orrore se fosse capitato sotto gli occhi di mio padre.

“Stiamo preparando uno spettacolo al teatro del Redentore. Vuoi venire?” gli chiesi un giorno, facendomi coraggio.

“Io uno spettacolo da farti vedere ce l’avrei pure mo’!” rispose Angelo, con uno sguardo così allusivo che mi sentii tremare le gambe.

“Non è che diventi una suora con tutti quei preti?” continuò, scrutandomi con i suoi occhi neri di demonio, il sorriso sulla bella bocca carnosa.

“E tu farai la fine di tuo fratello che sta in galera” gli risposi, con le guance in fiamme.

E invece Angelo fece una fine persino peggiore di suo fratello. Gli spararono molti anni dopo, là, su quella stessa strada dove mi aveva passato il bigliettino stropicciato.

Due colpi di pistola. Dietro la schiena.

***

Il giorno dello spettacolo il teatro era gremito di gente. Sul palco non hai difese. E’ come ritrovarsi nudi. Ti rendi conto che quel che è fatto è fatto e che il verdetto finale non avrà sconti. Qualsiasi esso sia. Soprattutto con un pubblico come quello che avevamo noi di fronte. Nonostante la debole illuminazione, dal palco riuscivo a distinguere i volti di quelli seduti in platea. C’era tutto il quartiere. Riconobbi il padre di Antonio, elettricista, che ci aveva sistemato l’impianto elettrico. Arrivava al teatro ogni sera, stanco morto dopo una giornata di lavoro e maneggiava i cavi, tenendosi in bilico su una scala sopra il palco. E noi cantammo per lui.

Individuai il padre di Gianni, tappezziere, che aveva smontato il vecchio sipario, completamente rovinato e rosicchiato dalle tarme, sostituendolo con uno nuovo, rosso fiammante. Fu anche per lui che cantammo.

Intravidi la madre di Nico, insegnante, che ci aveva dato una mano durante le prove di recitazione e le altre donne del Libertà, mamme, zie, nonne, che avevano cucito i costumi. E cantammo anche per loro. Vidi Angelo, insieme a quei brutti ceffi dei suoi amici. Il volto bellissimo e serio. Cantammo anche per lui. Io più degli altri. E per tutti i “topini” assiepati sotto il palco, incredibilmente silenziosi e assorti ad ascoltarci. E per Vito, che vendeva le bombole a gas in via Garruba, seduto accanto alla moglie e alla sua schiera di figli. E per Ciccillo il fornaio, da cui nonna portava a cuocere le enormi teglie di pasta al forno e i dolci di Natale. E per Pasquale cantammo, che vendeva le sigarette di contrabbando all’angolo tra via Crisanzio e via Trevisani. E anche per i pescatori del mercato all’aperto di via Nicolai. E per Lorenzino, detto Varichina, seduto in prima fila, che si tirava continuamente su gli occhiali, con le lenti spesse come fondi di bottiglia.

Fu un successo lo spettacolo. In tutti i sensi. Perché il teatro era pieno come un uovo, quella prima sera e ogni serata di replica. Perché la gente si divertì e si spellò le mani a forza di applaudire. Perché per tanto tempo nel quartiere non si parlò d’altro. Ma fu un successo soprattutto per noi, per quei ragazzi che eravamo, che nel Libertà siamo nati e cresciuti e che durante quei mesi di preparazione esaltante osammo, per la prima volta, guardare lontano. Che riuscimmo a sopravvivere anche grazie a quel piccolo teatro di parrocchia, che dall’esterno ricordava un capannone industriale. Che sognammo e vedemmo realizzarsi il sogno, in un tempo e in un luogo dove sognare, e ancor di più realizzare i sogni, sembrava quasi impossibile.

In quei lunghi mesi, frenetici e indimenticabili, il Libertà si era trasformato nel posto più bello del mondo. In quel dannato quadrilatero l’umanità sembrava scorrere a fiumi per le vie, insieme all’acqua spruzzata dalle pompe dei camion che passavano ogni pomeriggio a ripulire, sotto i marciapiedi, le immondizie lasciate dai venditori ambulanti del mercato della mattina.

Nessuno di noi, che oggi siamo madri e padri, siamo idraulici, operai, impiegati, meccanici, siamo professori stimati, musicisti di qualità, gente di spettacolo e persino registi famosi, nessuno di noi, dico, in quei giorni, maledisse mai il destino per il fatto di essere nato e cresciuto tra quelle strade, in quel pezzo di mondo dimenticato dallo Stato e da Dio.

Il calzone di cipolla e il tajine di pollo

Oggi è il mio ultimo giorno a Bari. Domani torno a Roma. Come di consueto, sono andata al mercato della Manifattura dei Tabacchi, nel Libertà, a fare scorta di taralli con i semi di finocchio, di orecchiette, di vasetti di ricotta forte, così da poterci condire pasta e cavoli e riempire la mia cucina dell’odore di questa Terra, che le mie figlie ormai hanno ribattezzato come “odore di Puglia”. La signora della bancarella mi sta spiegando come un solo cucchiaino di ricotta forte riesca a insaporire un intero calzone di cipolla, rendendolo la prova tangibile dell’esistenza divina. Non sa, la signora della bancarella, che io conosco esattamente quel sapore. Che le mie papille gustative iniziano a salivare come impazzite, anche soltanto al ricordo di quell’odore. Non sa che quando nonna lo infornava, il suo mitico calzone di cipolla, io ne annusavo l’odore intenso già quando salivo per le scale di casa sua. Non sa che io, in questo quartiere, ci sono nata e cresciuta. Sicuramente è disorientata dal mio accento, un po’ romano, un po’ ibrido, che mi si è appiccicato addosso. Non lo sa. E io non glielo dico. Perché mi piace starla a sentire. E mentre sono lì, ad ascoltarla, con il sorriso nel cuore, si avvicina una donna con la pelle scura, giovane, il capo completamente coperto da un foulard che le lascia libero solo il bel viso ovale. Porta un passeggino con un bimbo, di circa due anni. La giovane donna sta scegliendo delle cipolle dorate e ad un certo punto si ferma e ascolta la signora della bancarella, che sta raccontando del momento esatto in cui le donne antiche, dopo aver sistemato la pasta nella teglia, ripiena di cipolle e olive, praticavano un buco nella sfoglia superiore e ci soffiavano dentro, così che il calzone si gonfiasse, e ricoprivano poi il buco con un pezzetto di pasta, come tappo. Rivedo nonna che compie quel gesto magico, mentre io la guardo estasiata.

E il mio cuore continua a sorridere.

La giovane donna si ferma ad ascoltare stupita. Anche lei. “Mia mamma faceva tajine di pollo, con cipolle caramellate, olive e mele…” interviene all’improvviso.

“Ta…line?” chiede la signora della bancarella. “E ci jè u talin?”.

La giovane donna ride. Rido anch’io. “Tajine” spiega “è pentola di terracotta dove nostre donne cucinano carne a fuoco lento. Ha coperchio a forma di cono e calore rimane costante, dentro. E così carne diventa tenera tenera e cipolle prendono tutto sapore di carne”.

“Mè? E com jè la ricett? Dì u’fatt!” chiede la signora della bancarella, mentre attorno a noi, nel frattempo, si è formato un gruppetto di donne che ascoltano.

La giovane mamma spiega come si fa il tajine di pollo. Sono tutte attente. Il mio cuore continua a sorridere.

Le guardo, queste donne. A una a una. E non posso non pensare a quanto sia cambiato, il Libertà. Il quartiere dove sono nata e cresciuta non è più quello di trentacinque, quarant’anni fa. Ovviamente. Non può più esserlo. E’ inutile e ingiusto ripensare a quello che il Libertà ERA. Bisogna porre l’attenzione su quello che il Libertà E’. Adesso. Ora. Perché il Libertà, come tutti i quartieri, come tutte le città, è un posto in evoluzione. E’ un animale vivo e vegeto, che respira, che cambia, che si trasforma. Niente e nessuno può fermare questo processo. Sarebbe completamente inutile. E anche ingiusto. Osservo queste donne che si scambiano le ricette e penso: diamine! E’ così che si fa. E’ così che deve essere. I cambiamenti possono provocare periodi di crisi. Chi lo mette in dubbio? Ma la crisi ha anche un valore epifanico. La crisi rivela un problema. Richiede un “aggiustamento”. E il grado di civiltà di un popolo, di ogni popolo, sta proprio nel rispondere, a ogni periodo di crisi, con un nuovo aggiustamento. Un ri-adattamento. Ogni chiusura è deleteria. Non porta a niente. Lo scambio, il dialogo, la condivisione sono l’unica risposta possibile.

“Alì, buono!” dice la giovane donna dalla pelle scura al bimbo, che ha iniziato a frignare.

La signora della bancarella gli offre un tarallo e il bimbo s’azzittisce subito.

Un giorno Alì andrà a scuola col figlio di Colino “lo schignato”. Imparerà la nostra storia, il nostro meraviglioso dialetto, mangerà forse il calzone di cipolla che sua mamma nel frattempo avrà imparato a cucinare. Chi lo sa! Forse il figlio di Colino “lo schignato”, a sua volta, andrà pazzo per il cous cous della mamma di Alì e ogni volta che entrerà a casa sua, si toglierà le scarpe, lasciandole nell’ingresso, in segno di rispetto. Forse un giorno tutti e due mangeranno sgagliozze alla festa di San Nicola. “Sì, però u’ tajine di pollo di mamma, jè chiù megghje” dirà Alì, scherzando.

Mi allontano, lasciando le donne che parlano ancora. Devo andare preparare la valigia.

Il mio cuore? Ancora sorride.

©RitaLopez

I muri del Flacco

«Voglio fare il classico» dissi senza esitazione.

Eravamo a tavola e a mio padre andò il boccone di traverso.

«Il classico?» ripeté, dopo aver mandato giù un sorso d’acqua.

«Ma il classico è difficile! E poi dopo che fai? Devi andare per forza all’università!».

Passò a fissare mia madre, cercando un suo sostegno, senza risultato.

«Hai capito?» le chiese.

«U Flacc’! addò è sciut fratet!» continuò con aria leggermente allarmata, sperando che lei ricordasse gli anni turbolenti di mio zio, tra il ’68 e i primi ’70.

Anche questa volta il supporto di mia madre non arrivò.

«Io-voglio-fare-il-classico» dissi di nuovo, con un tono che non ammetteva repliche.

Finimmo di mangiare in totale silenzio. Per un attimo mi parve di scorgere un leggero sorriso sulle labbra di mamma.

***

Percorremmo tutta via Manzoni, a piedi, io e mio padre. Il Flacco era là, a due passi dal mare, maestoso e austero come una fortezza inespugnabile.

«Ecco» disse «la scuola è questa».

Guardai gli enormi torrioni angolari, l’imponente scalinata, le alte finestre con le grate, gli oblò circolari che correvano sul cornicione superiore e mi sentii infinitamente piccola e sprovveduta.

Ecco. Chi mise piede al Flacco, quel giorno di ottobre 1979, era una ragazzina piccola e sprovveduta.

Non volevo che mio padre si accorgesse della mia trepidazione. Entrai a grandi falcate nell’edificio, senza voltarmi. In realtà mi tremavano le gambe.

Anche l’interno era gigantesco. I soffitti altissimi. I corridoi chilometrici. Le finestre ampie da cui si vedeva il mare. E la bellissima scalinata stracolma di studenti quando suonava la campanella alla fine delle lezioni. Ragazzini, come me, del ginnasio. Ragazzi grandi, del terzo liceo.

«Tra cinque anni» pensavo «sarò come loro». Cinque anni, a quell’età, sembrano un’infinità di tempo.

***

Gli avevo insegnato a scrivere il suo nome e cognome con i caratteri dell’alfabeto greco: “Δωνατω Λωπεζ”. Scriveva la sua firma dovunque. Sui tovaglioli di carta. Sulla rubrica telefonica. Sul vetro appannato dai vapori della cucina. Sul pacchetto di sigarette di mio nonno. Ogni giorno mi chiedeva, quasi con una punta di soggezione, cosa avessi imparato di nuovo, quali nuove cose difficili ci avessero insegnato. Era curioso, ma anche orgoglioso di me. Entrava spesso nella stanza dove studiavo di solito, quella con il tavolo grande. Si avvicinava di soppiatto, sfogliava piano qualche pagina del Rocci, per poi allontanarsi in punta di piedi, timido ed impacciato.

“Elvis lo scocchiato”, il ragazzo del piano di sotto, ascoltava lo stereo a tutto volume ed era difficile concentrarsi sulla democrazia ateniese mentre cantava a squarciagola col suo marcatissimo accento barese: “Bibappalula sciis mai beiiiiibeee”.

Mio padre si affacciava alla finestra: «Uagliò!!» gli urlava, «E abbascia sta radio. C’è fighjama ca sta studje…» e voltandosi velocemente verso di me, mi chiedeva: «Che studi?».

«Storia» rispondevo di malavoglia.

«…ca sta studje storia. E ci ccazz! ».

Studiavo come una pazza. Con disperazione, con la rabbia in corpo. Come se fossi spinta dalla fede cieca che un giorno Clistene mi avrebbe riscattato dalla mia condizione.

Come se l’aoristo e l’ablativo assoluto mi avrebbero permesso di scollarmi finalmente di dosso le strade viscide del mio quartiere, con tutti i personaggi che lo popolavano.

Studiavo con la voracità di un lupo affamato, con la bava alla bocca.

Come se la consecutio temporum mi avrebbe concesso la facoltà di cancellare per sempre l’odore di cime di rapa che impregnava l’aria della cucina.

Come se grazie a Saffo, o a Orazio, sarei un giorno potuta sfuggire alle cozze sgusciate, ai bibappalula di “Elvis lo scocchiato”, al mio accento da meridionale ogni volta che aprivo bocca, alle preghiere col rosario sussurrate da nonna, alla tosse soffocante di mio padre, di notte, che toglieva il sonno a lui e a noi. Studiavo come chi vuole farsi del male, vuole ferirsi. Pur di non fare la fine di Rosa, la mia amica di infanzia, già fidanzata in casa con Mario, che ogni domenica pranzava dai futuri suoceri, portando un vassoio di paste di mandorla. Pur di cancellare gli androni bui e maleodoranti del posto dove abitavo e le urla dei venditori ambulanti di pesce fresco. Per dimostrare a mio padre che ce l’avrei fatta.

Aiutami Saffo.

Aiutami Orazio.

***

Morì alla fine del primo liceo. E il mondo crollò. Niente e nessuno sa di quel mio dolore più di quei muri antichi, più di quei banchi sulla cui superficie scrostata erano stati incisi i versi di Catullo, più di quelle finestre lungo il corridoio da cui m’incantavo a guardare il mare. Chiedevo di uscire dall’aula per andare in bagno e poi mi dimenticavo di rientrare, fino a che il professore si decideva a mandare un compagno di classe per vedere che fine avessi fatto. Andavo a scuola solo per inerzia. Salivo per quella scalinata come un automa.

Ecco. Chi oltrepassava la soglia del Flacco in quei giorni, era una ragazza con uno straccio al posto del cuore.

Saffo e Orazio non mi avrebbero aiutato, pensai.

***

So esattamente quando successe. Ero davanti all’enorme finestra del secondo piano. Il mare era grigio come il cielo. Li ho visti passare proprio là sotto, su corso Vittorio Veneto. Un uomo e una bambina. Si tenevano per mano. Si sono fermati e la bambina ha fatto un cenno con la mano, come per indicare la scritta sopra l’ingresso monumentale. Il padre le ha detto qualcosa, forse le ha letto il nome del liceo. Mi venne in mente quel giorno di ottobre, lontano di secoli, quando lui mi disse quasi sfidandomi: «Ecco, la scuola è questa».

E un’altra cosa mi venne in mente. La professoressa Elvira Tatulli, meravigliosa docente di storia dell’arte, che ci aveva raccontato di quando i soldati persiani giunsero ad Atene e distrussero l’Acropoli, il cuore sacro della città. Gli Ateniesi, in un primo momento, furono sopraffatti dal dolore e vietarono la ricostruzione degli edifici sacri abbattuti, perché nessuno dimenticasse mai. Ma poi, inevitabilmente, fu la passione a prendere il sopravvento, dando vita ad uno dei periodi artistici più sfolgoranti della storia dell’umanità. Tuttavia le statue sacre, profanate dalla mano del nemico, non lasciarono il cuore venerato dell’Acropoli. Rimasero lì. Durante la ristrutturazione furono poste sotto un cumulo di terra. Sul dolore, rivestito di humus e ancora caldo di lacrime e di preghiere, sorse la nuova Acropoli, più rigogliosa e più fulgida che mai.

«Beato chi fa dell’angoscia e della sofferenza un ponte stabile per raggiungere campi sereni e tersi di azzurro» aveva concluso la professoressa Tatulli.

Quella volta non ci fu bisogno che il professore mandasse il mio compagno di classe a richiamarmi in aula. Ci tornai da sola.

Imparai finalmente a studiare con la malinconica beatitudine di un cuore che voleva guarire. Studiavo con la fame ingorda di chi è stato digiuno per mesi. Con lo stupore commosso di fronte alla bellezza e alla consolazione che gli studi umanistici possono regalarti. Studiavo per il piacere di studiare.

E, sì, alla fine Saffo e Orazio mi hanno aiutato.

©RitaLopez

 

 

Per le strade del Libertà

Ci cammino, per queste strade del Libertà, il quartiere dove sono nata e cresciuta, come un segugio. Ci cammino ogni volta che posso. Ogni volta che torno. Ci cammino come una disperata che cerca di evocare le voci, gli odori, i volti, per farne una scorta di emozioni da portarmi via. E puntualmente, come d’incanto, quelle voci, e quegli odori, e quei volti ritornano, richiamati da una sorta di rito sacrificale, di una danza propiziatoria della pioggia. E ogni volta me lo domando: cos’è che mi tiene attaccata a questo posto? Cos’è che faceva, che fa ancora del Libertà una meravigliosa macchia indelebile stampata nel mio cuore, come il marchio a fuoco impresso sulle cosce del bestiame di una fattoria? E l’unica risposta che ho, è questa: è la sua gente. La mia gente. C’era la mia famiglia, certo. Le storie di mio nonno raccontate davanti alla stufa elettrica, nelle sere d’inverno. Il calore degli abbracci di carne e amore di nonna, certo. Ma oltre alla famiglia c’era la maestra. Il senso del rispetto che ci veniva insegnato. La solidarietà con le compagne di classe. Certo. La maestra, la scuola. Ma oltre alla scuola c’era l’oratorio del Redentore, con il suo teatro, che era il nostro punto di riferimento, la nostra ancora di salvezza. Là cantavamo, suonavamo la chitarra, ci passavamo le cassette, i libri. Là litigavamo. Facevamo pace. Ci innamoravamo. Il Redentore, certo. Ma oltre al Redentore c’era il cinema Jolly. E oltre al cinema Jolly, c’era Lorenzino detto Varichina. E poi ancora la signora del panificio dove correvi a prendere la focaccia e ti dileguavi, dicendo che più tardi passava papà a pagare. E Pasquale, che vendeva le sigarette di contrabbando tra l’angolo di via Crisanzio e via Trevisani e che una volta mi difese da un “vastaso” della mia età che voleva per forza baciarmi.

Ecco cos’era. Ecco cos’è, che rende forte un quartiere. Che lo rende inattaccabile. La sua identità. Il senso di appartenenza della sua gente. La solidarietà delle persone che ci abitano. Tutte. Quelle che c’erano e quelle che sono arrivate. Quelle più fortunate e quelle che devono lottare con le unghie e con i denti. L’umanità scorre a fiumi per le strade del Libertà. Non ci credete? Praticatela. Cercatela. Annusatela. Riconoscetela.

Niente è più bello che venire qui e “sentirsi a casa”. Potreste partire e non tornare più. Potreste cambiare città per lavoro o per qualsiasi altro motivo. Ma sentire di “essere tornati a casa” ogni volta che si cammina per queste strade, come un segugio, tra la Manifattura dei Tabacchi e il Redentore, tra i binari della ferrovia e l’ex Ospedaletto dei Bambini, tra il fatiscente cinema Giardino con i suoi altissimi eucalipti e il Tribunale, è amore allo stato puro. Credetemi.

Amatelo il Libertà. E il Libertà amerà voi.

©RitaLopez

Quella striscia grigia e salmastra di confine

Conobbi Nico in un giorno di fine scuola. Ci avevano fatto uscire un paio di ore prima, forse perché mancava il professore di greco. Non ricordo bene. Ero una ginnasiale libera, almeno per un paio d’ore. Faceva caldo, si stava bene. Invece di tornare subito a casa, percorrendo come ogni giorno tutta via Manzoni, avrei fatto un giro per conto mio. Avrei imboccato Corso Vittorio Veneto, oltrepassato il Castello Svevo e mi sarei intrufolata nella città vecchia. La città proibita. Il posto in cui mai e poi mai sarei dovuta andare da sola. Il posto dove sempre andavo, invece, quando mi trovavo a passeggiare da sola. Sbucai davanti alla Chiesa di Santa Scolastica e scesi per le scale che dall’alto della cinta muraria portano sulla strada sottostante. Un passo dietro l’altro, lungo il marciapiede scandito dai lampioni monumentali in ghisa, adagiati sugli alti basamenti di pietra bianca, altezzosi e austeri, simili a fedeli guardiani della costa. La muraglia possente da una parte. Il mare dall’altra. Un uomo a torso nudo, con lo stomaco prominente, la pelle bruciata dal sole, sbatteva un grosso polpo sugli scogli, fino a farlo schiumare. Poco più avanti un ragazzo dai capelli nocciola, con degli slip neri, si tuffava da uno dei grandi blocchi di cemento frangiflutti. I suoi vestiti erano posati su un angolo del blocco. Rallentai. Mi fermai. Il ragazzo si tuffava nell’acqua scura che odorava di sale e alghe. Scompariva, per poi riemergere in superficie, più lontano. Gli occhi chiusi. La bocca aperta per riprendere fiato. Ritornava veloce indietro, a grandi bracciate. Risaliva sul blocco di cemento facendo leva sulle braccia muscolose. Si rimetteva in piedi. L’acqua gli scivolava lungo il corpo snello. La sua pelle abbronzata brillava di centinaia di minuscole goccioline splendenti sotto il sole di giugno. La muraglia possente da una parte. Il ragazzo e il mare dall’altra. Ebbi la netta sensazione che si fosse accorto di me e che sorridesse.

 

Nico rubava le sigarette a suo fratello maggiore. Andavamo a fumarcele insieme, seduti su una delle panchine che scandiscono quella sottile striscia di confine che delimita la nostra città e il mare sconfinato. Distanti da noi, due vecchi pescatori aprivano le cozze con gesti esperti, servendosi di un grosso coltello. Di tanto in tanto li sentivamo litigare e imprecare, e ci veniva da ridere. La sirena di una nave ormeggiata nel porto nuovo, squarciava all’improvviso il silenzio di quel pezzo di lungomare diventato nostro. Era come il ruggito straziante di un vecchio leone ferito. E noi, io e Nico, sulla panchina posta sull’orlo del mondo intero, del nostro mondo, ci fumavamo tutto il pacchetto in due. Una sigaretta dietro l’altra, fino a sentirci storditi, ubriachi di fumo, leggeri come le nuvole veloci lassù in alto. Nico con le gambe incrociate sulla panchina ed io con la testa sulle sue gambe, a guardare il cielo senza fine.

Se ci ripenso, a noi, alle nostre vite, è proprio così che eravamo: costantemente sull’orlo di un precipizio, pronti in ogni momento a cadere nel baratro o a spiccare il volo, nel bel mezzo di una voragine senza fine. L’estate sarebbe finita presto. Io sarei tornata a scuola. Nico ancora non sapeva quello che avrebbe fatto. Non ci rimaneva che acchiappare le nostre vite a morsi. Divorarle.

Sognavamo, con il mare davanti agli occhi e la nostra terra alle spalle. Sognavamo su quella striscia grigia e salmastra di confine, che cingeva la città come in un enorme abbraccio. Bari, lì, in quel punto esatto, da una parte ci mostrava il mare e il cielo che si fondevano all’orizzonte, esortandoci a partire. Dall’altra, sempre lì, in quel punto esatto, sul limite tra il noto e l’ignoto, Bari ci teneva stretta tra le sue cosce, come un’amante gelosa e possessiva. Sognavamo di scappare anche se, inconsapevolmente, eravamo tutti e due troppo pieni di quella terra, e di quel mare intorno, e dell’urlo di quelle navi che in lontananza ruggivano come leoni straziati.

Su quel nastro di asfalto grigio puntellato dai lampioni di ghisa simili a fedeli guardiani, io e Nico eravamo gli eroi di un film senza pretese. Con l’anima in fiamme. Il cuore tremante.

Forse è su quella panchina che abbiamo imparato a guardare lontano.

E alla fine ci siamo scrollati davvero quella terra e quel mare di dosso, proiettati ognuno in un mondo diverso. Io a studiare nella capitale. Nico, che non ho mai più incontrato, a lavorare in una fabbrica del nord. Sono sicura che anche a lui, dovunque si trovi, di tanto in tanto risuona nella testa l’urlo prolungato della sirena della nave.

Ci sono passata stamattina, proprio là, su quella striscia grigia che separa la nostra città e il mare immenso. Ho rivisto la nostra panchina. Mi sono seduta un attimo. Domani torno a Roma, ma è bello pensare che questo nostro mare, che in questo punto lambisce e accarezza Bari, questo mare mio, e di Nico, e di tutti quelli che lo hanno amato, custodisca i nostri sogni. Le nostre lacrime. Le nostre preghiere. Le nostre bestemmie. Le nostre speranze. La nostra vita.

I lampioni di ghisa sono lì, come guardiani fedeli.

© RitaLopez

Io e quell’altra

 

 

 

 

 

Sono la bambina disobbediente. Trecce scomposte e scarpe slacciate. Mamma mi dice di non andare al porto vecchio, dove giocano i ragazzacci. Le dico “va bene” ma poi, voltato l’angolo, è là che mi dirigo. Sul vecchio molo. A guardare Giovanni e Luca e Antonio e Nicola che si tuffano nelle acque scure, che odorano di sale e nafta. Scompaiono tra le barche e poi riemergono con gli occhi chiusi, le bocche aperte. La pelle abbronzata che brilla al sole, ricoperta da centinaia di goccioline splendenti.
Mamma non lo sa ma, “quell’altra”, io l’ho nascosta dentro l’armadio. Le ho detto di stare zitta fino al mio ritorno.

Sono la ragazza indisciplinata. Capelli che arrivano alla vita e basco sulla testa. I parenti mi dicono: “Ora devi aiutare tua madre. Ora che è rimasta sola. Devi trovarti un lavoro. E’ tempo che ti rimbocchi le maniche, ora”. Dico loro “va bene”, ma poi, finita la scuola, io parto e vado all’università. A studiare con la rabbia che ho in corpo. A studiare con la smania che ho addosso.
I parenti non lo sanno ma, “quell’altra”, io l’ho imbavagliata sotto il letto. Le ho detto di non fiatare, che tanto non sarei tornata.

Sono la donna inadempiente. Coda di cavallo e orecchini da gitana. Rosa, che mi abita di fronte, mi saluta con cordialità. Mi dice “bella giornata oggi eh! Il tempo giusto per mettere su la lavatrice e stendere i panni”. Annuisco. Guardo il sole e penso che tra poco mi infilerò di nuovo gli scarponi e andrò a scavare sul Palatino.
Rosa non lo sa ma, “quell’altra”, io l’ho avvisata: o così o niente, bella!

Sono la vecchia insubordinata. Una montagna di capelli bianchi e il sigaro tra le labbra avvizzite.
Le mie vicine siedono all’ombra del muro, giù in cortile. Sanno fare meravigliose tovaglie di filo bianco con l’uncinetto. Le guardo dalla finestra, sorseggiando un bicchiere di Primitivo. Si accorgono di me e mi dicono: “Scendi!”. Dico di sì, ma prima metto sul mio vecchio stereo di seconda mano, dai tempi di quando ero ragazzina, un disco ormai graffiato e consunto. Il volume al massino
Le mie vicine scuotono la testa. Loro non lo sanno ma io, “quell’altra”, l’ho legata alla sedia a dondolo con il filo spesso di una vecchia matassa.
“Ti piace Jimi Hendrix?” le chiedo.
Senza dubitare neanche un secondo, con rassegnazione, lei, quell’altra, mi fa cenno di sì con testa.

© RitaLopez

La bambina dai capelli turchini

Si era laureata in Psicologia con il massimo dei voti.
Un dottorato sulla devianza giovanile e poi il concorso al Penitenziario.
Superato brillantemente, anche quello.
Mi sfugge il suo nome, ma noi, i ragazzi del Penitenziario, la chiamavamo “La Bambina dai Capelli Turchini”, per via del colore corvino dei suoi lunghi capelli, con i riflessi azzurri.
Avete presente quando il cielo è completamente oscurato, appena prima che sprofondi nella notte più buia, ma in fondo in fondo si percepisce ancora, nettamente, una nota di azzurro nell’aria?
Ecco, i suoi capelli erano di quel colore là.
Li portava perennemente legati, tenuti stretti, in basso, dietro la nuca.
Era brava, seria, puntuale.
Era una che aveva passato la sua adolescenza china sui libri, a studiare. E si vedeva.
A noi, giovani e impetuosi “devianti” sociali piaceva un sacco, perché aveva negli occhi quell’aria ingenua da ragazzina per bene, quasi sprovveduta a volte, quel candore verginale, quella purezza tipica delle persone squisitamente ingenue.
Dalla finestra della mia cella la vedevo arrivare ogni mattina alle otto, accompagnata in auto dal suo fidanzato.
Ed ogni pomeriggio, alle cinque, la osservavo andare via, sempre insieme a lui.
A vederli così, rigidi e impettiti, era inevitabile che, tra di noi,  facessimo delle battute oscene sulle capacità sessuali del tipo.
Ma devo dire la verità: quello stava sinceramente, spassionatamente, profondamente sulle palle a tutti.

Pino arrivò al Penitenziario verso la fine dell’inverno. Avrà avuto poco più di 20 anni.
Era uno spilungone dinoccolato, magrissimo.
Indossava una giacca tre taglie più grandi della sua misura. Si muoveva in maniera buffa, ricordava quasi un burattino di legno.
Portava sempre l’armonica in tasca e quando la poggiava sulle labbra sembrava che la suonasse col suo lungo naso appuntito.
Lo avevano beccato per un furto d’auto se non ricordo male. O roba del genere.
Due guardie lo accompagnarono nella mia cella e diventammo subito amici.
Mi raccontava della sua vita, di suo padre malato e povero in canna, tanto che dovette vendersi la giacca per comprargli i libri di scuola.
Mi raccontava del suo quartiere malfamato, dove la migliore aspettativa, per un ragazzo, era quella di diventare contrabbandiere di sigarette.
Mi raccontava delle amicizie poco raccomandabili, delle sbronze quotidiane e delle risse notturne, delle storie piccanti con le ragazze, delle fughe continue da casa e dei continui ritorni.

Il giorno dopo il suo arrivo al Penitenziario, Pino ebbe il suo primo colloquio con la “Bambina dai Capelli Turchini”.
“Allora? Che te ne pare?” gli chiesi ammiccando, appena rientrò nella cella.
“Chi quella?” rispose con aria beffarda “quella dovrebbe stare un paio d’ore da sola con me!”.
Passò il pomeriggio sdraiato sul letto a suonare l’armonica.
Poco prima delle cinque, si affacciò alla finestra, giusto in tempo per vedere la “Bambina” salire nell’auto del tipo e sfrecciare via lungo la strada.

Ho sempre pensato che la vita sia un’opportunità pazzesca per ognuno di noi.
Ed ora che sono vecchio, lo credo ancora di più.
Credo nel guerriero sfrontato e muscoloso che ci abita dentro.
Credo nella capacità che abbiamo di rendere eroica la nostra esistenza, a prescindere da dove ci capita di trascorrere i nostri anni: in fabbrica, o a scuola, o a fare la casalinga, o a combattere su un vero campo di battaglia. O in un Penitenziario.
Ora io non so cosa si siano detti Pino e la “Bambina dai Capelli Turchini”, di cosa parlassero durante i loro colloqui, di cosa sognassero precisamente.
Non so come si sia acceso l’amore tra di loro, come abbiano fatto ad alimentarlo, fino a farlo diventare una enorme vampa avvolgente.
So che ci hanno creduto. Questo so.

Pino uscì dal Penitenziario alla fine della Primavera e il suo posto fu occupato da uno spacciatore.
Era un pomeriggio dei primi di Luglio quando sentii il suono della sua armonica provenire giù dalla strada.
Guardai attraverso le sbarre della finestra e lo vidi. Era poggiato con le spalle al lampione, al bordo del marciapiede.
Subito dopo la “Bambina” lo raggiunse.
Era bellissima. Aveva i capelli blu notte con i riflessi turchini sciolti sulle spalle.
Le arrivavano alla vita.
Prima di andare via con lei, Pino alzò lo sguardo verso la mia cella e mi sorrise.
“Addio Luciano!!” gridò. Sollevai il braccio per salutarlo.
Li vidi andare via mano nella mano, fino a scomparire dietro l’angolo della strada.
Il giorno dopo una nuova psicologa arrivò al Penitenziario .

© Rita Lopez

Le “ciungomme” di Gianna S.

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La maestra camminava rigida e severa con i libri stretti al petto, con l’aria di chi aveva paura che qualcuno li rubasse.

La maestra entrava in classe senza sorridere e nell’aula piombava il gelo di mezzanotte.

E mentre saliva sulla pedana della cattedra, la maestra inciampava, facendo cadere i libri per terra e anche gli occhiali.

E Gianna S., che era stata bocciata non so quante volte, e che portava già il reggiseno, seduta all’ultimo banco perché era la più alta, scoppiò a ridere. Tutte ridemmo. A denti stretti, quasi soffocando. Ma ridemmo. Gianna S., invece, rise forte. Non riusciva a trattenersi. E mentre rideva, con la bocca spalancata, si intravedeva la sua ciungomma enorme, rosa, impregnata di saliva, prodigiosamente in bilico sulla sua lingua. Non può essere una sola ciungomma, pensai. Sì, sicuramente erano più ciungomme insieme.

E la maestra la guardò con occhi di ghiaccio e, con un leggero tremolio della bocca, sibilò: “Esci da questa classe”.

E Gianna S. disse: “Ma perché? Hanno riso tutte!”.

Ed era vero. Avevamo riso tutte, anche se  Gianna S. di più. La maestra però guardava lei. Solo lei. E tutte mi sembrarono vigliaccamente sollevate. Miracolosamente liberate da un peso e sadicamente pronte a godersi lo spettacolo.

“Ti ho detto di uscire da questa classe” quasi ruggì la maestra.

Gianna S. si alzò dalla sua sedia, scostando bruscamente il banco.

Aveva il grembiule troppo stretto e troppo corto.

“Ha ragione, non ha riso solo lei”, dissi all’improvviso, alzandomi anch’io.

“Stai zitta. E siediti” fischiò tra i denti la maestra,  fredda come il vento di maestrale che soffia a gennaio sul molo del porto vecchio.

Gianna S., ad occhi bassi, si diresse verso la porta.

Non mi sedetti. La seguii.

Passammo tutta la mattina in sala direzione, a fare palloni enormi con le ciungomme di Gianna S. Tre ciungomme per una in bocca. Ridevamo. E ci facevano male le mascelle.

Palloni enormi. Palloni profumati. Palloni morbidi e rosa.

© RitaLopez

(Foto presa dal sito: http://dopotutto.blog.tiscali.it/2011/12/08/chewing-gum/?doing_wp_cron)

Il mercato delle schiave

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Avevamo una bella casa, con una fattoria. Davo da mangiare agli animali. Giocavo con i miei fratelli. Andavo a scuola ogni giorno. Ed era bellissimo.

Sono arrivati una mattina, su una camionetta militare, sollevando un nugolo di polvere densa sopra la terra riarsa dal sole. Hanno spalancato la porta di casa e hanno iniziato ad urlare. Avevano barbe lunghe, armi tra le mani e occhi cattivi. Ci siamo stretti l’un l’altro, terrorizzati, io e i miei fratelli più piccoli.

Mamma non c’era.

C’era solo mio padre, livido in volto. Gli tremavano le gambe. Uno degli uomini dalle lunghe barbe si è avvicinato a me e mi ha urlato qualcosa in una lingua che non capivo. L’ho fissato negli occhi, paralizzata dallo spavento. Mi ha dato uno schiaffo forte sul viso. E ha ripreso ad urlare. Mio padre, con un tremito impercettibile delle labbra, ha tradotto per me. L’uomo voleva che andassi con lui e io ho obbedito, per non mettere in pericolo la mia famiglia.

Mamma non c’era.

Altri due uomini, armati anche loro, mi hanno fatto salire sulla camionetta. Era stipata di  ragazze, tutte giovani. Tutte coperte col velo. Una di loro era incinta. Altre avevano bimbi piccoli in braccio. C’erano anche delle bambine. Piangevano. Mi sono girata a guardare la mia casa, in preda alla disperazione. I miei fratelli più piccoli sarebbero stati portati via da altri uomini, barbuti anche loro, anche loro armati, dagli occhi cattivi, per essere addestrati a diventare soldati avvezzi all’uso di armi e di bombe. Avvezzi a decapitare teste, senza pietà. Chi di loro si fosse rifiutato, sarebbe stato torturato o violentato. La camionetta è ripartita, sollevando nuovamente una nuvola densa di polvere. Ho intravisto mio padre, per un’ultima volta, immobile sulla soglia di casa, dove sarebbe stato trucidato.

Mamma non c’era.

Dopo chilometri di strada dissestata, gli uomini dalle lunghe barbe, ci hanno fatte scendere e ci hanno spinto nel cortile di quella che un tempo doveva essere stata una scuola. “E’ il mercato delle schiave” ha sussurrato nel mio orecchio una ragazza dagli occhi chiari, che era con me. La donna incinta ha tentato di scappare. E’ stata uccisa con una raffica di colpi alle spalle. Cadendo, le è scivolato il velo che le copriva il viso. Non avrà avuto neanche vent’anni. All’interno dell’edificio c’erano molti uomini seduti su delle sedie. Ci hanno chiamato una per una. Ci hanno strappato il velo e hanno scritto il nome e il prezzo di ciascuna di noi su un foglio di carta. Ci hanno obbligato poi a camminare tra gli uomini e ognuno di loro prendeva la ragazza, o la bambina, che voleva. Una bimba di 8 anni e sua madre sono state vendute separatamente. La bimba si divincolava. Piangeva. L’uomo che l’ha presa le ha dato una sberla così forte, che la bimba è stramazzata per terra. Io sono stata venduta ad un uomo grasso, alto, dell’età di mio padre. Quella notte sono stata violentata per ore da lui e da altri uomini. Ininterrottamente. Senza sosta. Fino ad agonizzare. Fino a perdere i sensi. In tre mesi sono stata venduta cinque volte. Sono rimasta anche incinta e ho preso di nascosto sei pillole, tutte insieme, per uccidere il bambino.

Tutto quello che volevo, era stare con mia madre.

L’uomo si è accorto che avevo cercato di abortire e mi ha picchiato così tanto sulla faccia, che ho perso la vista da un occhio. L’ho supplicato di uccidermi e lui ha detto che non voleva andare all’inferno per colpa mia.

Io invece all’inferno ci andrei volentieri, perché qualsiasi inferno, anche il più terribile, non potrà mai eguagliare questo.

Avevamo una bella casa, con una fattoria. Davo da mangiare agli animali. Giocavo con i miei fratelli. Andavo a scuola ogni giorno. Ed era bellissimo.

©RitaLopez

Il pagliaccio di Aleppo

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Mi chiamo Arwa. Io e mio fratello più piccolo, Khalid, viviamo con mia zia, nel quartiere di Mashhad, nella parte orientale di Aleppo. Viviamo là da quando i nostri genitori sono morti, proprio sulla soglia della nostra bella casa, durante un bombardamento. Eravamo per strada, io e Khalid, e all’improvviso sono arrivati gli aerei e hanno iniziato a sganciare le bombe. Ho afferrato mio fratello per un braccio e ci siamo precipitati verso la nostra abitazione. Ma casa nostra non c’era più. Mamma e papà erano caduti là sulla soglia, semisommersi dalle macerie e dalla polvere. Sicuramente avevano aperto la porta per cercarci, per richiamarci in casa. “Arwa!!!Khalid!!! Arwaaaaa!!!”.

E adesso erano lì, tutte e due. Da sotto il velo che mamma indossava sulla testa scendeva una lunga striscia di sangue, che le arrivava fino alla bocca. Papà aveva gli occhi semiaperti, diretti verso la nostra direzione. Sembrava guardarci.

E’ da quel giorno che Khalid non ha più parlato.

Mia zia è buona con noi, ma non è come la mamma. Ogni giorno ci porta in uno di quegli asili che hanno costruito sotto terra, per permettere a noi bambini di giocare al sicuro dai bombardamenti.

Khalid per tutti quei mesi rimase in un angolo. Senza mai intervenire. Mai partecipare. Mai parlare. Poi un giorno arrivò un pagliaccio con i capelli arancioni, un cappellone giallo e la punta del naso dipinta di rosso.

Lo ricordo bene. Noi bambini giocavamo alla corsa nei sacchi. A un certo punto ho dato un’occhiata a Khalid, accovacciato come al solito nell’angolo della grande sala, e quasi non credevo a quello che vedevo. Il pagliaccio stava parlando a mio fratello. E mio fratello gli rispondeva. Gli occhi bassi. La testa china. Ma gli rispondeva.

Quella sera a casa di mia zia, Khalid parlò di nuovo, dopo mesi e mesi di mutismo.

Disse: “Posso avere un altro po’ di minestra, per favore?” e mia zia, con la mano tremante, gli mise dell’altra zuppa nel piatto.

Khalid ricominciò anche a giocare. Andavamo all’asilo sotterraneo tutti i giorni e tutti i giorni, per due o tre ore, eravamo bambini normali. Volevamo bene al pagliaccio dai capelli arancioni e lui voleva bene a tutti quanti noi. Ma a Khalid di più.

Oggi ho saputo che è morto. Il nostro pagliaccio, dai capelli arancioni e col cappello giallo e la punta del naso dipinta di rosso, è morto. Sotto le bombe.

Ma io non lo dirò a Khalid. Ho deciso che non glielo dirò.

© RitaLopez

(nella foto: Anas al Basha, 24 anni, che strappava un sorriso ai bambini di Aleppo e che  ha perso la vita nel cuore dell’inferno).

La cosa più buona del mondo

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Il vento di tramontana, dritto sulla faccia, mi gela le guance e mi fa lacrimare gli occhi.
Chissà perché ho ripensato a te questa mattina.
Era così ogni volta che dormivo a casa tua: ti sentivo sgusciare da sotto le coperte, nella tua camera da letto, e trascinare i piedi in cucina dove ti preparavi il caffè con la macchinetta napoletana.
Mi alzavo anch’io e ti seguivo.
Faceva freddo in quella casa senza termosifoni ma tu, in canottiera, di fronte al lavandino di pietra, ti buttavi l’acqua gelata sulla faccia.
“Brrrrr!!” dicevi alla fine, facendo vibrare vistosamente le labbra e scuotendo la testa da una parte all’altra, schizzando dappertutto un pioggia ghiacciata.
Ridevo coprendomi il viso con le mani.
Bevevi il tuo caffè come fosse la cosa più squisita del mondo. Un sorso e una boccata di sigaretta. Un sorso e una boccata di sigaretta. Lasciavi la tazzina vuota sul tavolo e io col dito raccoglievo lo zucchero sul fondo e, avevi ragione!, era la cosa più buona e squisita del mondo.
E poi arrivava il momento per me più divertente.
Ti avvolgevi le gambe con i fogli di giornale, prima di infilare i pantaloni.
E lo stesso facevi attorno al petto, prima di indossare la giacca.
“Ammèn iosce!”. Fa freddo oggi.
Quando avevi finito, ti chinavi verso di me e ti toccavi la guancia con l’indice. Ti davo un bacio e uscivi di casa.
Correvo ad infilarmi ancora per un po’ sotto le coperte.
E mi piaceva immaginarti mentre pedalavi sulla tua bicicletta accanto al lungomare incazzato e ventoso, nella tua buffa armatura. Le spalle strette per ripararti dal freddo. Potevo vedere il maestrale scaraventare le onde sugli scogli, nella furia della mareggiata, e coprire di schiuma bianca l’asfalto della strada, ma tu, il mio eroe bardato di fogli di giornale, la testa bassa, gli occhi strizzati, il sapore di caffè in bocca, le schivavi ogni volta.
Così ti immaginavo allora.
Così ti ho immaginato stamattina.

©RitaLopez

La maledizione di Aelia

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E’ grigio e plumbeo il cielo di Roma sopra la città che ancora dorme. Ma alla giovane Aelia non importa.
Pioggia e lacrime sul suo viso sconvolto.
Il vento d’autunno le schiaffeggia le gambe.
Corre Aelia. Corre verso la necropoli fuori le mura. E non ha paura.
Ripensa al giorno prima, a quando ha svoltato l’angolo della Subura, e li ha visti. Fausto, il suo amato Fausto, e Rodine tra le sue braccia.
Le dita delle mani intrecciate. Le bocche che si cercavano con avidità.
Non dorme Aelia. Non dorme per tutta la notte. E medita.
Incide con mano tremante la sua maledizione su una tavoletta di piombo. E all’alba esce di casa.
Pioggia e lacrime sulle guance smunte.
Arriva nel luogo dove sono sepolti i morti, al di là della cinta muraria e scava. Scava una buca con le mani nude, per consegnare la sua dannata preghiera al dio degli inferi.
“Dis Pater, Plutone, io ti prego, poni fini all’amore tra Rodine e Fausto.
Come il morto che è qui sepolto non può né parlare, né discorrere, così Rodine sia morta per Marco Licinio Fausto”.
Non sente il freddo sulle mani. Non sente i graffi delle piccole pietre taglienti sulle dita. Ripone la sua maledizione sul fondo umido e accogliente della terra.
Quasi in preda ad un’eccitazione febbrile, ricopre freneticamente la buca.
Il vento le sferza i capelli sul collo bianco.
E ancora pioggia e lacrime sulle sue gote.
Si copre il capo con il mantello e con le scarpe fradicie e il cuore in subbuglio, ripercorre la strada che la riporta alla Subura, prima che Roma si svegli.

(Nella foto una “tabella defixionis” (tavoletta di maledizione) trovata in via Latina, da una tomba a circa mezzo miglio da Roma. Metà del I sec. a.C. Museo delle Terme di Diocleziano, Roma).

© RitaLopez

Giovanna

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Si accascia sulla sedia della vecchia cucina. Le braccia sulle gambe. E si guarda intorno.
Si guarda intorno, Giovanna.
I capelli spettinati. La camicia sbottonata. La tazzina di caffè che fuma sul tavolo.
Si guarda intorno, quasi in cerca di una motivazione.
Solo un piccolissimo granello di motivazione, che la spinga ad alzarsi, a scuotersi, a fare quello che deve fare.
Lo sguardo scivola sui pensili della cucina, e sulla finestra con le tendine color crema, e sui ciclamini viola che fanno capolino dal davanzale.
Scivola lo sguardo di Giovanna. Scivola senza mai soffermarsi. Scivola come liquido untuoso sugli oggetti.
E’ sopraffatta dalla stanchezza. Di prima mattina.
Il cuore grigio come il cielo. E nessun palpito di gioia.
Si ricorda del caffè. Solleva la tazzina e sorseggia. E’ quasi freddo ormai.
Quando ha finito, lascia finalmente la sedia e si trascina pigramente alla finestra.
Scosta le tendine color crema.
Il cielo grigio come il cuore. E nessun segno di schiarita.
Ti ho pensato Giovanna, mentre camminavo sotto la pioggia sottile di questa mattina.
Ti ho pensato, e avrei voluto chiamarti per dirti di cambiare aria.
Anzi, avrei voluto essere lì, nella tua cucina, per prenderti a schiaffi e urlarti di cambiare aria.
Al diavolo le tue tendine color crema. Al diavolo i tuoi ciclamini e la tua dannatissima vecchia cucina!
Cambia aria, Giovanna!
Cambia aria!

© RitaLopez

 

Un bagno senza pretese

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A molti di voi l’idea di avere un bagno con tutti i sanitari, compreso la doccia, potrebbe apparire come la cosa più naturale del mondo.

Un bagno senza pretese, signori miei! Con l’armadietto per riporre il phon e il pettine. Uno stipetto per qualche asciugamano. Un grande specchio che si appanna con il vapore, quando aprite il rubinetto dell’acqua calda. Un bagno in cui cantare quando vi fate la doccia. Un bagno normale insomma. Cosa c’è di tanto eclatante?

Beh, per nonna avere un bagno così, normale, modesto, dignitoso, conciso insomma, fu una conquista.

Il bagno di nonna io me lo ricordo bene.

Era un metro per un metro. Non così, per dire. Era, letteralmente, un metro per un metro.

Costruito abusivamente, negli anni sessanta, su un balconcino che a sua volta era stato costruito abusivamente. Prima di quello c’era un tubo, fuori dalla finestra, in cui si svuotavano gli orinali. Come in tutte le case vecchie del nostro quartiere.

E me la ricordo bene quella triste e minuscola tazza del cesso messa in un angoletto e quel triste e minuscolo lavandino, incastrato nell’angoletto opposto.

Su una parete era stata aperta una finestrella quadrata di 20 centimetri per lato. Sulla parete di fronte vi era un pensile, dove riporre il pettine, lo spazzolino da denti, il dentifricio.

Nel bagno di nonna ci si lavava a pezzi. Imprecando. Bestemmiando. Lanciando maledizioni.

“Prima ca morc m’ia fa nu bagn nuev. Quannièvveriddio!”.

Prima di morire avrò un bagno nuovo. Quanto è vero Iddio.

Ma i soldi non c’erano mai. E, oltre ai soldi, a essere sinceri, non c’era neanche lo spazio sufficiente per costruirne uno nuovo.

Ma nonna era testarda. E quando diceva una cosa la faceva, diamine!

Da una pensione miserabile riuscì a mettere da parte un risparmio sopra l’altro. Mese dopo mese. Anno dopo anno.

Il suo gruzzolo diminuiva precipitosamente in prossimità di un compleanno, o una festa comandata, o un matrimonio. Riprendeva a ricrescere a fatica, arrancando, mese dopo mese. Anno dopo anno.

A 80 anni passati nonna escogitò il suo progetto per allargare il bagno: bisognava rompere un muro di qua, chiuderne un altro di là, restringere la cucina, far passare il tubo della fogna sotto il balcone… Un lavoro immane.

A 80 anni passati nonna ebbe il suo bagno normale. Modesto. Dignitoso. Conciso.

Con tutti i sanitari. Compreso la doccia. Compreso la finestra con le tendine ricamate. Compreso un attaccapanni per l’accappatoio. Compreso un ripiano laccato di bianco per riporre le saponette profumate, e l’acqua di rose, e il bagnoschiuma alla lavanda.

Quando si faceva la doccia, la sentivamo cantare a squarciagola.

“Alleluja mio Signoooore!!! Alleluja o Dio del Cieeeeelo!”.

Ci metteva ore per lavarsi.

“Nonna apri!! Devo andare in bagno, ti prego!”.

Faceva finta di non sentire.

© RitaLopez

 

Il tubo magico

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Mi sorrise con i suoi occhi da messicana e tirò fuori dalla borsa di stoffa verde scuro, quella che usava sempre per fare la spesa, qualcosa che aveva comprato per me.

Era un tubo di cartone, con una specie di tappo, tutto colorato. Aveva un foro su ciascuna estremità.

La osservai con aria interrogativa: “Cos’è?”, le chiesi.

“Non lo so come si chiama. Ma si vedono cose belle”, rispose.

Puntò quella specie di cannocchiale verso la finestra e guardò attraverso uno dei fori, ruotando  piano il tappo con la mano.

“Tieni, guarda anche tu” mi disse poi, porgendomi lo strano oggetto.

Lo avvicinai all’occhio. Chiusi l’altro.

Era un tubo magico! Dentro c’erano delle cose. Delle cose incredibili!

Conteneva ricami dai mille colori, soli incandescenti, stelle del firmamento, mosaici di pianeti.

Ruotavo il tappo e comparivano piccoli cristalli di ghiaccio variopinti, puzzles di migliaia di tesserine luminescenti, e ancora i vetri policromi di certe chiese gotiche, e i ghirigori precisi dei tappeti persiani, e la perfezione di piccolissimi e preziosi arabeschi.

“Che bello!” esclamai, allontanando il tubo magico dalla faccia. Gli occhi spalancati.

E ho ripensato a te, questa mattina, e a quel caleidoscopio che mi regalasti da bambina.

Ho ripensato a te, perché stamattina c’era questo cielo pazzesco, dagli incredibili colori, che mi hanno ricordato le figurine colorate del tubo magico.

Tu riuscivi a vedere il bello, sempre. Anche dove il bello non c’era.

Perché il bello era in te, pensavo di fronte a questo cielo psichedelico.

Perché ti aspettavi di vedere il bello anche dove sembrava impossibile che ci fosse e riuscivi a sorprendermi, ogni volta, quando mi accorgevo che il bello, alla fine, c’era davvero.

Stamattina mi hai sorriso di nuovo, con i tuoi occhi da messicana.

© RitaLopez

La ninfa del Tevere

Era il 1889 e a Roma si effettuavano i lavori di costruzione del Palazzo di Giustizia, proprio a ridosso del Tevere, quando, scavando, emerse dal terreno impregnato d’acqua, il sarcofago della giovane Crepereia. Un sarcofago come tanti, a dire il vero, ma quando si sollevò il coperchio, la scoperta diventò leggenda. Lo scheletro della ragazza era adagiato all’interno ma il suo teschio era ancora ricoperto da una folta e lunghissima capigliatura che ondeggiava sull’acqua penetrata all’interno durante i secoli. Il volto era girato da un lato, dove giaceva anche la sua bambola.

Ogni ragazza, alla vigilia delle sue nozze, andava a deporre la propria bambola sull’altare della dea Afrodite, come segno della fine dell’infanzia e della propria verginità. Ma Crepereia, che non aveva ancora vent’anni, promessa sposa di Filetus, non lo avrebbe fatto mai. Le sue amiche non le avrebbero mai consegnato il fuso e la conocchia, come si usava, per rimarcare il passaggio alla vita di moglie fedele e devota. Il suo futuro marito, Filetus, non l’avrebbe mai sollevata tra le braccia, per evitare che inciampasse nel varcare la soglia della nuova casa, scongiurando, in questo modo, ogni segno nefasto.

Niente di tutto questo sarebbe accaduto, perché un giorno la morte misteriosa venne a prendere Crepereia. Il suo corpo freddo venne adagiato nel sarcofago di marmo finemente decorato, all’esterno, da un rilievo bassissimo che la raffigurava sul letto, defunta, mentre i genitori la compiangevano.

Al momento della sepoltura sua madre le aveva messo gli orecchini a pendente, in oro e perle, quelli che a lei piacevano tanto e una collana con i ciondoli, formati da piccoli cristalli di berillo. Con le lacrime agli occhi le aveva posato sul capo una coroncina di foglie di mirto, trattenuta da piccoli fiori d’argento. Per ultimo le aveva infilato nell’anulare sinistro l’anello nuziale su cui era inciso il nome di Filetus, l’uomo che avrebbe dovuto sposare.

«Aspettate! Fermi! La sua bambola!» disse qualcuno, prima che la tomba fosse richiusa per sempre.

Posero nel sarcofago anche me, la sua bambola d’avorio, creata dalle mani esperte di un giovane artigiano dagli occhi nocciola e dai capelli neri come la notte: Stenius.

Crepereia non mi lasciava mai. Ero il suo gioco preferito, perché ero una bambola di mirabile fattura, certo. Perché avevo le articolazioni snodate e sembravo muovermi come un essere umano, certo. Ma mi amava più di ogni altra cosa, soprattutto perché era stato Stenius a costruirmi.

Pensava a Crepereia, Stenius, quando stilizzò i miei piccoli seni e modellò il mio ventre.

Pensava a Crepereia quando disegnò il morbido ovale del mio volto. Il naso dritto. La bocca carnosa. Gli occhi intensi e assorti.

Pensava a Crepereia quando incorniciò il mio viso con morbide trecce avvolte sulla nuca.

Queste cose nessuno le sapeva. Solo io custodivo il segreto. Solo io sapevo che le carezze che Crepereia faceva a me, erano in realtà rivolte al giovane di cui era innamorata.

Mi posero dunque vicino alla testa della promessa sposa e chiusero il coperchio del sarcofago. Il suo tonfo cupo fece rabbrividire i presenti.

Ci seppellirono entrambe in una buca profonda, sulle sponde del Tevere.

Ho vegliato su Crepereia per tutto questo tempo. Sono stata la sua bambola fedele, giorno dopo giorno. E, giorno dopo giorno, una goccia del fiume penetrava nel sarcofago. Una goccia dopo l’altra, dopo l’altra, dopo l’altra, fino a che esso si riempì completamente di acqua.

Passarono molti secoli e un giorno degli uomini scoprirono il nostro nascondiglio e aprirono il sarcofago.

Enorme fu lo stupore dei loro occhi quando ci videro.

Crepereia si era trasformata in una divinità fluviale, dai lunghissimi capelli che fluttuavano nell’acqua del sarcofago.

Era diventata una ninfa.

La ninfa del fiume Tevere. La ninfa dai lunghi e morbidi capelli.

***

(Dalla testimonianza dell’archeologo R. Lanciani, presente agli scavi per la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia, a Roma, nel 1889:

“Tolto il coperchio, e lanciato uno sguardo al cadavere attraverso il cristallo dell’acqua limpida e fresca, fummo stranamente sorpresi dall’aspetto del teschio, che ne appariva tuttora coperto dalla folta e lunga capigliatura ondeggiante sull’acqua. La fama di così mirabile ritrovamento attrasse in breve turbe di curiosi dal quartiere vicino, di maniera che l’esumazione di Crepereia fu compiuta con onori oltre ogni dire solenni, e ne rimarrà per lunghi anni la memoria nel quartiere Prati. Il fenomeno della capigliatura è facilmente spiegato. Con l’acqua di filtramento erano penetrati nel cavo del sarcofago bulbi di una tal pianta acquatica che produce filamenti di color d’ebano, lunghissimi, i quali bulbi avevano messo di preferenza le loro barbicine sul cranio. Il cranio era leggermente rivolto verso la spalla sinistra, dove era adagiata una gentile figurina di bambola…”).

© RitaLopez

(Pubblicato nella Gazzetta del Mezzogiorno del 29 aprile 2020).

(nella foto: bambola di Crepereia, II sec. d.C., Roma Centrale Montemartini).

Born to run

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Policlinico di Bari. Reparto di Ortopedia pediatrica. Anni ’70.

Era pomeriggio, uno di quei pomeriggi di primavera quando l’aria è frizzante e le rondini vorticano tra i vicoli e ti domandi come mai  non vadano a spiaccicarsi sulle case.

Ma lì dentro l’ospedale tutto questo non si vedeva.

Ero in uno stanzone dal soffitto altissimo, io ed altri sei.

E una serie di altri stanzoni, stipati di ragazzini, si affacciavano su una lunga corsia.

O almeno io così me la ricordo. Lunga, lunghissima.

Giocavamo a correre. Noi di ortopedia.

Partivamo dal grosso finestrone affacciato sul cortile, ad una estremità della corsia, giù giù fino alla statua della Vergine Maria con le braccia spalancate e il mantello azzurro che le ricadeva dietro le spalle.

Io con le stampelle, Nicola sulla sedia a rotelle, Giampiero che aveva il gesso che partiva  dal ginocchio e arrivava a coprire quasi tutto il piede, lasciando libere solo la punta zozzissima delle dita, e una ragazzina, di cui non ricordo il nome, con una protesi all’anca.

Michele no. Lui non lo facevamo correre. Aveva solo il braccio rotto e avrebbe vinto di sicuro.

Però poteva dare il via.

Era seduto sul basso ripiano sotto  l’alto  finestrone e fumava di nascosto, con la finestra semiaperta, perché non si sentisse la puzza.

“Via!!!” urlò Michele, dopo che ebbe espirato il fumo dalle narici attraverso le ante socchiuse della persiana  verde, dalla vernice scrostata.

E noi lì ad annaspare, ad anelare, a zoppicare, verso la statua della Vergine Maria con le braccia spalancate, posta all’altra estremità della corsia.

Dalle soglie degli stanzoni gli altri ragazzini facevano il tifo.

Tutti, tranne Marisa. Lei non poteva. Aveva certi chiodi lunghi nella colonna vertebrale ed era costretta a stare sempre sdraiata sul letto.

Vinse Nicola, quello con la sedia a rotelle.

Però fece cadere i vasi con i fiori freschi che le nostre mamme  portavano ogni mattina, disponendoli sotto la statua della Madonna.

Anna, l’infermiera, arrivò trafelata.

Chiudeva sempre un occhio sui nostri giochi movimentati. Ci consolava quando piangevamo e ci portava il ciambellone al cioccolato da casa.

Ma quella volta si arrabbiò.

“E ci jè do!? Mò avast mò! Sciatavinn tutt quant!”

(E che succede qua!? Ora basta! Sparite tutti quanti!)

Ognuno tornò mollemente al suo letto.

Michele buttò subito la sigaretta dal finestrone.

Marisa dal suo  letto mi chiese,  mentre passavo davanti alla sua stanza: “Chi ha vinto?”

“Nicola!” le risposi.

Si era fatto buio.

La palla bianca con la lampadina a neon del mio stanzone si rifletteva sul vetro della finestra.

Facevo finta che fosse la luna piena.

L’indomani sarebbe venuta mamma a trovarmi.

© RitaLopez

Lapidata da migliaia di “mi piace”

 

Alla “rete” non si sfugge. E la “rete” mi ha catturata.

La “rete” che ha reso liberi e degni di parola la maggior parte di voi, in una brodaglia di amorevole democrazia, ha fatto schiava me.

Sono stata lapidata da migliaia di “mi piace”.

Linciata per qualcosa che non è reato, non più di rubare immagini private e darle in pasto ai pescecani morbosi con la bava alla bocca.

Sono stata lapidata da quegli stessi uomini e donne che si soffiano rumorosamente il naso quando i talebani, a centinaia di chilometri di distanza da noi, scavano un buca, vi pongono una donna tremante  e piangente, con le mani incatenate dietro la schiena, e la massacrano a colpi di pietre.

Beffeggiata, umiliata, messa alla gogna dalle risate sguaiate, dagli ammiccamenti vomitevoli, dal fango lanciatomi addosso.

Sono stata lapidata dagli insulti, paparazzata fin nei minimi dettagli della mia intimità, derubata della mia vita privata, del mio cognome.

Sono stata lo scandalo sulle bocche di tutti. Bocche che mai si sono scandalizzate per la mafia e la camorra, bocche pronte a spalancarsi per inveire contro di me. Bocche di uomini e bocche di donne, a cui piacciono le stesse cose che piacevano a me.

Non mi sono suicidata.

Sono stata massacrata dai vostri “se l’è cercata”.

Non mi sono suicidata.

Sono stata lapidata da migliaia di “mi piace”.

© RitaLopez

 

Artemisia

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Ero insieme a  mio padre, che era un grande pittore,  la prima volta che osservai da vicino i capolavori di Caravaggio nelle cappelle di San Luigi dei Francesi e di  Santa Maria del Popolo. Ne rimasi estasiata.  E fu grazie a mio padre che, fin da piccola, frequentai artisti famosi, e bazzicai botteghe, e imparai a combinare tra loro i colori.

Amavo dipingere, ma le donne nella Roma dei primi anni del ‘600, non erano ammesse nelle accademie o nei grandi cantieri. La carriera di “pittore” ci  era preclusa. Potevamo soltanto dipingere in casa. Cose piccole, senza importanza: ritrattini, piante, fiori.

Ma io dipingevo con mio padre, e con mio padre ho imparato a dipingere come un uomo.

Mi affidò al suo amico, il maestro Agostino Tassi, perché apprendessi l’arte della prospettiva nell’architettura dei dipinti.

Un  giorno di pioggia, Agostino entrò nello studio dove stavo lavorando.

Mandò via l’altra donna che era con me. I suoi modi mi sembrarono piuttosto strani  e, una volta soli, finsi di sentirmi male. Lui non se ne curò. Mi scaraventò per terra e mi saltò  addosso come un toro infuriato.

Gli ho resistito come ho potuto. A morsi. A calci.  A graffi.  Alla fine il boia mi ha sopraffatta.

Litigai con mio padre, perché non voleva che  parlassi. Diceva che dovevo  mantenere salvo  l’onore mio e della mia famiglia. Ma io non accetto il sopruso. Non l’ho mai accettato.

Denunciai Agostino.

Ho subito l’umiliazione del processo.

Ho dovuto dimostrare, sottoponendomi alla visita di due ostetriche, di essere stata sverginata.

Ho dovuto sopportare la tortura più crudele per un pittore: lo schiacciamento dei pollici per pubblica esibizione, per dimostrare che non mentivo.

Il processo si concluse con la condanna, anche se breve,  del mio carnefice, e con la mia fuga  a Firenze, per mettere a tacere i pettegolezzi  di  Roma.

Non  ho mai dimenticato la sua violenza  e tutto il male che mi è costato.

Nel 1614 ho dipinto “Giuditta che decapita Oloferne” per il serenissimo Granduca Cosimo II.

E ho dipinto servendomi della rabbia, e dell’odio, e della sete di vendetta  che da sempre covavo per il mostro.

Oloferne, il re assiro, ha le sembianze del  bastardo. E’ disteso su candide lenzuola. Giuditta, con il volto di Artemisia, lo sgozza, aiutato da un’altra donna. Due donne.  Di estrazioni sociali diverse. Ma potrebbero essere decine, centinaia, migliaia di donne, di ogni appartenenza sociale e culturale,  intente a vendicarsi, con freddezza, con lucidità,  delle violenze subite.

Decine, centinaia, migliaia di donne col viso impassibile, inespressivo, che ammazzano il proprio stupratore, con la stessa determinazione con cui si sgozza  un maiale.

Il sangue sprizza a fiotti dal collo, imbrattando le lenzuola.

Ecco, Agostino! L’ho dipinta la violenza che ho subito. E me ne sono liberata, finalmente!| Che te ne pare?

Con la denuncia dello stupro non ho ottenuto alcun  risarcimento morale, né la mia verginità perduta. Ma se devo essere sincera, di quello poco mi importava e poco mi importa.

La mia vittoria più grande è stata il riconoscimento della mia personalità artistica. Ho conquistato la libertà di essere una donna pittrice. Dopo “Giuditta e Oloferne”, principi e cardinali, tutti hanno voluto i miei quadri.

Sono diventata un’artista famosa, mentre nessuno si ricorda di Agostino Tassi. Che te ne pare?

Alla fine la mia più grande virtù non è stata la verginità, ma la pittura. E io l’ho difesa Agostino!

Io l’ho difesa. Ed eccomi qua.

© Rita Lopez

Il lupo di Monte Gorzano

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Non so perché sono qui. Non so cosa sia successo. So solo che non riesco a muovermi e mi fa male la gamba.
Tutto ciò che ricordo è che ieri papà ci ha promesso che ci avrebbe portato su, a monte Gorzano, che è il monte più alto del Lazio. Lo so bene perché l’ho studiato a scuola.
Papà ci ha detto che là ci sono delle sorgenti da cui scorre acqua buonissima.
Tutto ciò che ricordo è che ho litigato con Anna, mia sorella, per chi avrebbe dovuto portare la borraccia con la custodia di cuoio. Una borraccia vera, come quella degli alpinisti.
“Io sono più grande!” le ho detto, “La porto io!”.
Ma Anna si è messa a piagnucolare, come al solito, e papà ha deciso che l’avremmo portata un po’ per uno.
“E dovrete anche stare attenti ai lupi, domani! I lupi odiano i bambini che si lagnano. Quindi niente piagnistei. Chiaro?” ha aggiunto.
Ci ha dato il bacio della buonanotte ed è uscito dalla stanza, chiudendo la porta.
Poi non ricordo più niente. Solo un boato, un ruggito feroce e spaventoso.
Ed ora sono qui e non so da quanto tempo e non so perché. E non riesco a muovermi. E mi viene da piangere.
Non è possibile che io sia morto, perché i morti non provano dolore, mentre io ho tanto male alla gamba e respiro a fatica, per via della polvere che ho dentro le narici e la bocca.
Provo a chiamare mia sorella: “Anna…”.
Vorrei urlare, ma non ci riesco.
Forse è un incubo. Forse sto solo sognando.
Ho paura. Voglio solo mio padre e mia madre. E mia sorella.
Le lacrime mi escono dagli occhi e mi bruciano la faccia.
E proprio quando comincio a pensare che sono andati tutti via, lasciandomi completamente solo, avverto che qualcosa si muove, sopra di me.
No, non mi sto sbagliando, sento dei rumori, li sento davvero, dapprima attutiti e poi sempre più netti.
Improvvisamente un fascio di luce mi acceca gli occhi. Devo richiuderli per il dolore. Li riapro a fatica e scorgo il muso nero di un cane lupo.
E’ lui! E’ uno dei lupi di Monte Gorzano, quelli di cui papà ci aveva parlato.
Ricaccio indietro le lacrime, perché il lupo non pensi che mi stia lagnando.
Stiro il collo più che posso e alzo il volto verso il fascio di luce.
Sono qui!, grido. Salvami! Sono qui!
© RitaLopez