Il calzone di cipolla e il tajine di pollo

Oggi è il mio ultimo giorno a Bari. Domani torno a Roma. Come di consueto, sono andata al mercato della Manifattura dei Tabacchi, nel Libertà, a fare scorta di taralli con i semi di finocchio, di orecchiette, di vasetti di ricotta forte, così da poterci condire pasta e cavoli e riempire la mia cucina dell’odore di questa Terra, che le mie figlie ormai hanno ribattezzato come “odore di Puglia”. La signora della bancarella mi sta spiegando come un solo cucchiaino di ricotta forte riesca a insaporire un intero calzone di cipolla, rendendolo la prova tangibile dell’esistenza divina. Non sa, la signora della bancarella, che io conosco esattamente quel sapore. Che le mie papille gustative iniziano a salivare come impazzite, anche soltanto al ricordo di quell’odore. Non sa che quando nonna lo infornava, il suo mitico calzone di cipolla, io ne annusavo l’odore intenso già quando salivo per le scale di casa sua. Non sa che io, in questo quartiere, ci sono nata e cresciuta. Sicuramente è disorientata dal mio accento, un po’ romano, un po’ ibrido, che mi si è appiccicato addosso. Non lo sa. E io non glielo dico. Perché mi piace starla a sentire. E mentre sono lì, ad ascoltarla, con il sorriso nel cuore, si avvicina una donna con la pelle scura, giovane, il capo completamente coperto da un foulard che le lascia libero solo il bel viso ovale. Porta un passeggino con un bimbo, di circa due anni. La giovane donna sta scegliendo delle cipolle dorate e ad un certo punto si ferma e ascolta la signora della bancarella, che sta raccontando del momento esatto in cui le donne antiche, dopo aver sistemato la pasta nella teglia, ripiena di cipolle e olive, praticavano un buco nella sfoglia superiore e ci soffiavano dentro, così che il calzone si gonfiasse, e ricoprivano poi il buco con un pezzetto di pasta, come tappo. Rivedo nonna che compie quel gesto magico, mentre io la guardo estasiata.

E il mio cuore continua a sorridere.

La giovane donna si ferma ad ascoltare stupita. Anche lei. “Mia mamma faceva tajine di pollo, con cipolle caramellate, olive e mele…” interviene all’improvviso.

“Ta…line?” chiede la signora della bancarella. “E ci jè u talin?”.

La giovane donna ride. Rido anch’io. “Tajine” spiega “è pentola di terracotta dove nostre donne cucinano carne a fuoco lento. Ha coperchio a forma di cono e calore rimane costante, dentro. E così carne diventa tenera tenera e cipolle prendono tutto sapore di carne”.

“Mè? E com jè la ricett? Dì u’fatt!” chiede la signora della bancarella, mentre attorno a noi, nel frattempo, si è formato un gruppetto di donne che ascoltano.

La giovane mamma spiega come si fa il tajine di pollo. Sono tutte attente. Il mio cuore continua a sorridere.

Le guardo, queste donne. A una a una. E non posso non pensare a quanto sia cambiato, il Libertà. Il quartiere dove sono nata e cresciuta non è più quello di trentacinque, quarant’anni fa. Ovviamente. Non può più esserlo. E’ inutile e ingiusto ripensare a quello che il Libertà ERA. Bisogna porre l’attenzione su quello che il Libertà E’. Adesso. Ora. Perché il Libertà, come tutti i quartieri, come tutte le città, è un posto in evoluzione. E’ un animale vivo e vegeto, che respira, che cambia, che si trasforma. Niente e nessuno può fermare questo processo. Sarebbe completamente inutile. E anche ingiusto. Osservo queste donne che si scambiano le ricette e penso: diamine! E’ così che si fa. E’ così che deve essere. I cambiamenti possono provocare periodi di crisi. Chi lo mette in dubbio? Ma la crisi ha anche un valore epifanico. La crisi rivela un problema. Richiede un “aggiustamento”. E il grado di civiltà di un popolo, di ogni popolo, sta proprio nel rispondere, a ogni periodo di crisi, con un nuovo aggiustamento. Un ri-adattamento. Ogni chiusura è deleteria. Non porta a niente. Lo scambio, il dialogo, la condivisione sono l’unica risposta possibile.

“Alì, buono!” dice la giovane donna dalla pelle scura al bimbo, che ha iniziato a frignare.

La signora della bancarella gli offre un tarallo e il bimbo s’azzittisce subito.

Un giorno Alì andrà a scuola col figlio di Colino “lo schignato”. Imparerà la nostra storia, il nostro meraviglioso dialetto, mangerà forse il calzone di cipolla che sua mamma nel frattempo avrà imparato a cucinare. Chi lo sa! Forse il figlio di Colino “lo schignato”, a sua volta, andrà pazzo per il cous cous della mamma di Alì e ogni volta che entrerà a casa sua, si toglierà le scarpe, lasciandole nell’ingresso, in segno di rispetto. Forse un giorno tutti e due mangeranno sgagliozze alla festa di San Nicola. “Sì, però u’ tajine di pollo di mamma, jè chiù megghje” dirà Alì, scherzando.

Mi allontano, lasciando le donne che parlano ancora. Devo andare preparare la valigia.

Il mio cuore? Ancora sorride.

©RitaLopez

5 comments

  1. Vivo da anni nel quartiere Libertà di Bari e quando ti leggo capisco che gli mancano le persone come te, quelle che lo amano e che sanno raccontarne la vita quotidiana, l’incontro tra persone che lentamente imparano a conoscersi, su terreni che esse stesse conoscono. Sono davvero tanti i problemi che attraversa, ma spesso il principale è l’occhio di chi lo osserva ed è chiamato a indicare strade e strategie per le soluzioni. Complesse e non di brevissimo periodo.

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